Gli angeli di Seattle

Tratto dal mio libro “L’istante prima del viaggio

<< …tra tutte le cose belle che la città sa offrire, l’aspetto speciale di Seattle, quello che me l’ha fatta amare ancor prima di metterci piede e che mi ha convinto a portarci tutta la famiglia, è che qui vivono gli angeli: sono angeli speciali, alcuni ancora ben presenti, vivi e vegeti, magari con qualche capello in meno e un filo di barba grigia, altri invece sono anime invisibili che volano leggere nel vento di Seattle, facendo fischiare le travi del Needle o increspando le acque scure del Puget Sound. Sono gli angeli della musica, anime sensibili e spesso dannate, capaci di trasformare in note la loro malinconia o la loro rabbia, la loro energia o le loro debolezze.

Percorriamo gli ambienti del Museum of Pop Culture e l’emozione cresce nell’area dedicata alla musica dei figli di Seattle: nella semi oscurità che mi avvolge ecco apparire luminoso l’angelo di Jimi Hendrix, con la sua bandana, la chitarra mancina mezza bruciacchiata e la giacca di velluto; ecco l’angelo di Layne Stanley, con i suoi grandi occhiali da sole scuri che nascondono un’anima fragile e tormentata; ecco l’angelo di Chris Cornell, che all’epoca ci deliziava ancora con la sua voce potente ed inconfondibile, mentre ora è silenzioso e con lo sguardo malinconico; mi sale un nodo alla gola quando in fondo al corridoio intravedo un altro angelo, la frangia bionda che scivola davanti agli occhi azzurri, mentre i ricordi riaffiorano… gli anni Novanta, gli anni dell’adolescenza, gli anni in cui nella mia testa potevano convivere genere musicali disparati come il metal estremo ed il grunge… inghiottivo, respiravo, assorbivo tutto il turbinio di emozioni che la musica sapeva offrire, purché guidata dai suoni distorti di una chitarra elettrica… il Palatrussardi di Milano stracolmo, gli amici con i capelli lunghi e i jeans strappati, il sapore della birra e delle labbra della mia ragazza, gli accendini che illuminavano le tribune (non esistevano gli smartphone!), i suoni vibranti, quasi psichedelici dei Nirvana che vomitavano decibel dal palco… e c’eri tu, Kurt, la testa un po’ chinata con un cappellino di lana e poi i capelli biondi a coprirti gli occhi, non una parola tra una canzone e l’altra, quasi distaccato, forse triste, sentivi già troppo il peso di quel successo che invece di farti volare ti soffocava e avvelenava. Te ne sei andato poche settimane dopo, un pugno nello stomaco in un tiepido giorno di aprile, uno squarcio improvviso in quella nuvola spensierata che era l’adolescenza… sembrava che il mondo adulto avesse allungato una mano dal futuro e si fosse portato via uno di noi, uno che avevamo appena visto suonare per noi, ad una grande festa. Mi perdo ancora un attimo nei ricordi del passato, in quegli occhi blu che mi ricordano quelli di un altro angelo che adesso suona il basso con te Kurt e vola anche lui libero nei cieli di Seattle e del mondo. La luce del sole mi riporta con i piedi per terra, le ragazze mi corrono incontro, “hey daddy, hai gli occhi arrossati, tutto bene?”. Certo, tutto benissimo….>>

Per leggere altri racconti e aneddoti su Seattle, la musica, gli anni Novanta, gli Usa, i miei viaggi nel mondo, le avventure con 3 bambine in Europa, America e Asia, regalati o regala “L’istante prima del viaggio” ! #dreamnowtravellater

In formato cartaceo (clicca QUI) e in formato digitale (clicca QUI).

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L’istante prima del viaggio

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Il covid-19 ha interrotto i viaggi ed il mio lavoro “serio” di tour operator, ma mi ha fornito anche il tempo e l’opportunità di mettere su carta i racconti… della mia vita in viaggio. Ho sfruttato alcune idee di questo blog e le ho sviluppate, arricchite e messe un pò in ordine: ne è scaturito “L’istante prima del viaggio”. I momenti che precedono l’inizio di un viaggio sono una parte importante del viaggio stesso, sono carichi di aspettative e di eccitazione: il bagaglio è chiuso, i documenti sono pronti, i biglietti al sicuro. Non resta che partire. Dalle estati spensierate trascorse con gli amici sui treni di mezza Europa, zaino in spalla e pallone tra i piedi, passando per le moschee dell’Iran, le pagode della Birmania e i monasteri dell’Himalaya, fino alle avventure nell’Asia tropicale con moglie e tre figlie: questi e molti altri sono i racconti della mia vita in viaggio. Aneddoti, informazioni, curiosità, suggestioni e qualche riflessione fanno da contorno alle diverse storie: qualcuno si riconoscerà in qualche episodio, qualcuno prenderà spunto per una nuova idea di viaggio, magari ispirandosi alla mia esperienza per mettere da parte i timori di portare la famiglia fin dall’altra parte del mondo. Come diceva Terzani, il senso del viaggio (e della vita) non è la meta, non è arrivare, ma è viaggiare, magari in compagnia di un amico fidato o delle proprie bimbe o anche solo di sé stessi. Assaporandone la magia fin dall’istante prima di partire.

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India in famiglia: Udaipur

Tratto dal capitolo “Il karma, il babbuino e la dea Kālī”

del mio libro “L’istante prima del viaggio

Udaipur, la “città bianca”, qui in versione “dorata” al tramonto

“Nooooooo, daddy!!!!!” esclamano le ragazze all’unisono. Lancio uno sguardo interrogativo nella loro direzione, mentre risalgo il corridoio del volo Jet Airways in partenza tra poco da Delhi per Udaipur, cercando di non rimanere impigliato con le cinghie dello zainetto ai braccioli dei sedili. Sono l’ultimo della famiglia in fila per raggiungere il posto a sedere e mi chiedo cosa non vada bene: c’è qualcuno seduto al loro posto? c’è un finestrino finto e non possono guardare fuori? c’è un ragno sul poggiatesta??!? “Daddy, questo aereo non ha gli schermi dei film e dei giochi!!”. Ooookkkei. Quando le lamentele non superano la soglia del Tetris mancato, significa che il viaggio si sta svolgendo in modo soddisfacente e se la famiglia è contenta, non posso che esserlo anch’io.

L’aereo atterra sulla pista dell’aeroporto di Udaipur in una nuvola di spruzzi, è il secondo acquazzone monsonico dal nostro arrivo in India, ma anche stavolta il temporale si affievolisce non appena raggiungiamo il parcheggio dei pulmini in attesa. Udaipur è una piccola oasi adagiata tra le colline e le montagne degli Aravalli, nella parte meridionale del Rajasthan e la presenza di due laghi artificiali la rende piacevolmente fresca e romantica. Le città il cui nome termina con “pur” hanno un’origine indù (rispetto a quelle che terminano con “bad”, di origine islamica, come l’antico appellativo di Agra, cioè Akbarabad) e Udaipur fu fondata nel XVI secolo quando l’imperatore Moghul Akbar assediò e saccheggiò Chittor, l’allora capitale del regno di Mewar, costringendo il Rana Udai Singh II a spostare la corte in un luogo più sicuro, a ridosso dei monti Aravalli: un eremita indicò al re dove avrebbe dovuto far costruire il suo palazzo, sulle sponde del lago Pichola ed esattamente lì sorse il nucleo storico dell’odierna Udaipur.

Le colline Aravalli, ricoperte di foreste, rappresentano l’habitat ideale per svariate specie animali…

Queste informazioni storiche sono un omaggio al maestro Karampal Singh, padre di Amandeep, che sapeva raccontare le vicende dei suoi antenati con orgoglio e passione. Non posso pensare di avvicinarmi neanche lontanamente alla sua capacità di affascinare e coinvolgere chi lo ascoltava, perciò lascio che i ricordi dei suoi racconti mi rimbalzino un po’ in mente senza annoiare la famiglia come stavo per fare ad Agra. D’altronde, anche senza rincorrere date ed eventi storici intrecciati a nomi di Maharaja e Sultani sconosciuti, la bellezza della “città bianca” si svela da sola davanti ai nostri occhi: percorriamo le sale, i cortili, i padiglioni e le terrazze del City Palace, una volta residenza reale ed oggi riflesso della prosperità di quei tempi passati. La barchetta gira intorno all’albergo Taj Lake Palace costruito su un’isola in mezzo al lago e ci deposita su un’altra isola, Jagmandir, dove gustiamo un pranzetto con vista sullo scorcio panoramico più suggestivo di tutta la città, placando la stizza di Aurora che -scattate le ore 13:30 di qualsiasi fuso orario- se non addenta del cibo diventa un filo irascibile. Appunto per i viaggiatori con figli: non importa quanto sia interessante la visita che state effettuando, se è ora di mangiare va interrotto tutto e si va a mangiare!

Scorcio degli interni del City Palace di Udaipur

Rimedio al disguido portando tutte nella piscina dell’albergo, per un pomeriggio di relax e tuffi nell’acqua fresca. E stavolta prenoto anche il tavolo in terrazza per cena! L’hotel è uno dei più suggestivi di tutta l’India, si chiama Raas Devigarh e consiste in un palazzo-fortezza del XVIII secolo accuratamente ristrutturato, situato nella campagna a pochi chilometri dalla città di Udaipur, totalmente immerso nella natura tra verdi colline. Il silenzio è totale, si sente solo qualche rumore ovattato proveniente da un vicino villaggio, il resto è solo il frullare delle ali dei pappagallini e il “ciunfete” delle ragazze che si buttano in acqua. Al tramonto siamo da soli sulle sdraio a bordo piscina ad ammirare il cielo che da blu diventa rosa e poi sfuma lentamente verso il buio: un momento molto sereno della vacanza, un emozionante regalo dell’India ai suoi ospiti. Nel bel mezzo di questa pace, si sente uno strano rumore, quasi un tonfo, provenire dalla parte opposta della terrazza in cui si trova la piscina. Tutti giriamo la testa e nella penombra appare una lunghissima coda in posizione eretta che avanza verso di noi a gran velocità, nascosta dietro ad un muretto. In un attimo ci troviamo davanti un magnifico esemplare di babbuino, una bestia alta almeno quanto Aurora: ci fissa da pochi metri con quegli occhi quasi umani per almeno trenta eterni secondi, poi prosegue verso l’altro muretto alle nostre spalle e sparisce con un balzo nella foresta. I cuori ripartono ed il respiro ricomincia.

Ci guardiamo e scoppiamo a ridere… Incredible India!

La scena del “crimine”: sento ancora il rumore dei suoi passi !
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“L’istante prima del viaggio” ora anche eBook !

“Chiuso forzatamente in casa, con un’infinità di ore davanti ogni giorno a cui dare un senso, ecco l’occasione per fare ciò che, con la scusa di non avere tempo, di essere troppo stanco, di non avere l’ispirazione giusta, ho sempre rimandato: scrivere un racconto, anzi, tanti piccoli racconti intrecciati tra loro, legati dal filo conduttore del viaggio. Cioè una passione che ha sempre fatto parte della mia vita, che è diventata la mia professione, che oggi non è possibile svolgere e che in futuro non si sa come si trasformerà, ma cambierà e molto. Pensare ai bei momenti del passato e all’eccitazione del momento prima di ogni partenza, far riemergere i ricordi più emozionanti, gli aneddoti, le sensazioni positive che viaggiare mi ha sempre suscitato è il modo che ho trovato per liberare la mente da queste quattro mura, per continuare a sognare e per non perdere l’ottimismo nel credere in futuro di scrivere ancora altre pagine di questa storia.”

L’istante prima del viaggio, ora disponibile anche in formato eBook su Amazon.

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Singapore: malaria, finanza & heavy metal

Molti viaggiatori diretti nel Sud Est Asiatico, in Estremo Oriente o in Oceania non disdegnano una sosta a Singapore. Questa città-Stato rappresenta una tappa ideale per spezzare i lunghi viaggi aerei e, grazie alle sue caratteristiche ed attrazioni, è diventata uno dei luoghi più visitati al mondo. Ciò che attira di questo puntino disperso sul mappamondo tra l’Indonesia e la Malesia è un mix di tanti fattori, frutto di una storia e di un’evoluzione sociale con pochi eguali: Singapore è asiatica, ma con un rigore ed uno stile di vita molto europei; è in cima agli indici di benessere mondiali e vanta tassi di criminalità quasi inesistenti; è un’isola urbana, ma con una ricchissima vegetazione tropicale, spiagge, giardini ed un clima sempre caldo tutto l’anno; infine è un paradiso per lo shopping, per la gastronomia e per i divertimenti che, dal Gran Premio di Formula Uno fino alle esposizioni artistiche più innovative, passando per i suoi numerosi musei che ne raccontano le vicende storiche, la rendono attraente, creativa e dinamica durante tutto l’anno.

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Marina Bay Sands (vikingandre.com)

Non è sempre stato così: durante la dominazione portoghese e successivamente quella olandese sulla zona di Malacca, Singapore rappresentava sì un ricco centro nevralgico dei commerci asiatici, ma tra i suoi confini le condizioni di vita erano davvero infime. Malavita, crimini, pessime condizioni igieniche, scontri etnici, malattie, zanzare, animali selvaggi e diffusa dipendenza dall’oppio la rendevano un luogo inospitale e malfamato. Sir Stamford Raffles approdò a Singapore nel 1819 e trasformò quest’isola paludosa e infestata dalla malaria in una colonia britannica strategica sulle rotte commerciali asiatiche ed un porto franco capace di attirare ondate di lavoratori e mercanti. Come ci mostra il museo Chinatown Heritage Centre, è in questa fase storica che si consolidò la vocazione multietnica e multiculturale di Singapore: Raffles suddivise in quartieri distinti i vari gruppi di immigrati provenienti dall’India, dalla Cina, dalla Malesia, dall’Europa e tuttora è possibile individuare le rispettive comunità di Little India, Chinatown, Kampong Glam, Colonial District.

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Clarke Quay Singapore (vikingandre.com)

Il benessere ed il successo della Singapore attuale sono frutto di un’azione politica volta a limitare e a regolare la vocazione un po’ anarchica delle varie comunità etniche presenti sull’isola: i governanti post-indipendenza applicarono severamente leggi e regole, favorirono una rapida industrializzazione, convogliarono risorse economiche nell’edilizia pubblica e residenziale, nel sistema scolastico, nelle infrastrutture, nella sanità e nelle pensioni. Tutto ciò, unito a più recenti politiche volte ad attirare immensi capitali finanziari, ha condotto Singapore agli attuali livelli di qualità della vita e ricchezza: oggi, la “città del leone” si presenta infatti come un “lindo” susseguirsi di grattacieli, strade a più corsie, percorsi pedonali, fontane, illuminazioni fantasiose, ristoranti di ogni tipo, alberghi futuristici, opulenti centri commerciali, gallerie d’arte all’avanguardia.

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The Merlion (vikingandre.com)

A fianco di questa modernità sempre proiettata al futuro, sono ancora vive e ben visibili le testimonianze del passato storico di Singapore: per esempio, nel tempio Sri Veeramakaliamman di Little India i colpi ritmati sui tamburi, i piedi nudi, le invocazioni dei bramini, la gente addossata l’una all’altra che elargisce offerte alle divinità indù ricordano i riti millenari che tuttora si svolgono nella “big India”.

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Il tempio Sri Veeramakaliamman con l’hotel Hilton sullo sfondo (vikingandre.com)

Il successo del modello sociale multietnico e multiculturale di Singapore risiede proprio in questa coesistenza di modernità e tradizione in uno spazio relativamente piccolo e rigorosamente regolato: il suo dinamico e pacifico melting pot è poi chiaramente agevolato dal benessere indotto dall’aver assunto un ruolo dominante in Asia come centro di scambi finanziari mondiali.

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Gardens by the Bay (vikingandre.com)

In questo modello di società apparentemente perfetto non mancano contraddizioni e derive: nel Marzo 2019, su invito del Ministero degli Interni, l’Autorità preposta al controllo su Media e Comunicazioni (IMDA) ha vietato lo svolgimento dei concerti dei gruppi musicali svedesi Watain e Soilwork in città, motivando la decisione con la volontà di scongiurare il pericolo “che il genere metal suonato dai gruppi potesse disgregare l’armonia sociale di Singapore”…. Medioevo, AD 2019.

 

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Lights and shadows of Singapore (vikingandre.com)

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Farsi trasportare dal vento nel cielo di Bagan

E’ ancora buio quando chiudo senza far rumore la porta della mia camera, scendo le scale che conducono alla lobby e raggiungo il cortile davanti all’ingresso dell’albergo. L’orologio indica le ore 4.45, nell’aria frizzante della notte birmana scruto il vialetto vuoto e silenzioso in attesa che qualcuno venga a recuperarmi. Passano pochi minuti ed ecco avvicinarsi le luci di un pulmino, prendo posto su una panca in legno di radica insieme a qualche altro assonnato individuo e dopo un paio di soste in altrettanti alberghi giungo in un ampio prato alla periferia di Bagan, cittadina situata nella Birmania centrale, famosa per il suo sito archeologico protetto dall’Unesco.

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Vengo affidato ad un pilota inglese insieme ad un gruppetto di una dozzina circa di altre persone, Peter ci raduna in uno spazio ben delimitato nei pressi del cestino della nostra mongolfiera: nulla è lasciato al caso, si capisce immediatamente che una buona parte dell’importante spesa erogata per vivere questa esperienza è destinata alla sicurezza e alla professionalità di piloti esperti, provenienti soprattutto da Gran Bretagna e Australia. Parlo di cestino, ma in realtà la base della mongolfiera che giace sdraiata su un lato è piuttosto grande, in grado di contenere tra 8 e 16 persone oltre al pilota e a 2 grosse bombole di gas; anche il pallone, a cui è legato da un complicato intreccio di fili e corde, è molto ampio, già lo si intuisce vedendolo a terra mentre un gruppetto di ragazzi dello staff si prodigano a distenderlo.

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Dopo un dettagliato briefing in inglese su posizione a bordo durante la partenza, su sorvolo e atterraggio, nonché sulle varie procedure di sicurezza ed emergenza, mi gusto una tazza di tè caldo e qualche biscotto mentre assisto alla preparazione della mongolfiera. I voli avvengono solo durante la stagione secca, sempre per ragioni di sicurezza non vengono effettuati quando la Birmania è soggetta a clima monsonico (cioè prevalentemente in estate), pertanto la brezza prima dell’alba è ancora fresca durante le fasi preparatorie del pallone: l’aria viene immessa alla base inizialmente con grossi ventilatori e poi gradualmente scaldata dalle fiamme emesse dalle grosse bombole inserite nel cesto, finché poco alla volta la mongolfiera si gonfia e assume una posizione verticale. Questa fase iniziale avviene a pochi metri di distanza da dove sto sorseggiando il tè ed è particolarmente interessante: innanzitutto, perché non ho mai visto prima un pallone di tali dimensioni riempirsi d’aria calda fino al punto di librarsi nel cielo; in secondo luogo, mi piace osservare lo spettacolo delle fiammate color arancione che scaturiscono dalle bombole di tutti i palloni radunati in questo prato: illuminano la notte come guizzanti lingue di fuoco, mentre pian piano l’orizzonte comincia a schiarirsi alle prime luci dell’alba.

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L’emozione cresce quando Peter dà il segnale di salire a bordo e subito dopo maneggia le leve per erogare una generosa sfiammata che fa staccare la cesta dal prato sottostante, mentre i ragazzi dello staff salutano con la mano e sorridono augurando buon volo. Bagan è famosa in Asia per la sua immensa piana archeologica, un’area pianeggiante punteggiata da una miriade di stupa in mattoni di ogni forma e dimensione: più di duemila monumenti ancora integri e altrettanti in rovina a causa dell’età e dei terremoti, fatti edificare a partire dall’XI secolo dal re Anawrahta che, una volta divenuto convinto sostenitore della disciplina buddista Theravada, diede inizio ad un programma di grandi costruzioni a sostegno della nuova religione.

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Il sorvolo in mongolfiera mi suscita un crescendo di sensazioni positive e mi gusto appieno ogni istante: il pallone che si innalza senza fretta nel cielo, le luci dell’alba che rischiarano l’aria e la spennellano di sfumature colorate, le ombre della notte che sotto di me lasciano spazio ai raggi del sole, le pagode ed i templi di Bagan che lentamente escono dall’oscurità ed abbracciano i colori dorati del giorno nascente. Il cielo ora è pieno di mongolfiere colorate, ciascuna segue la propria rotta decisa unicamente dal vento e dalle lievi correnti provocate dal sole che scalda la pianura ed asciuga la rugiada notturna dal terreno, disperdendo la leggera nebbiolina che vela i campi. Peter resta in contatto radio con lo staff a terra e descrive ai suoi ragazzi il tragitto orientandosi a vista con i punti di riferimento che il paesaggio offre: uno stupa dalla forma inconfondibile, una strada, un albergo, il fiume, una risaia, un campo coltivato, un filare di palme.

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Il nostro pilota fa scendere la mongolfiera fino a quasi sfiorare la cima di alcuni alberi, i contadini che nel frattempo si sono recati al lavoro nei poderi sorridono mentre tranquillizzano i bufali innervositi da queste ombre giganti che scivolano silenziose sopra le loro teste. Poi con un paio di fiammate riprende quota e la prospettiva sul panorama cambia nuovamente, il mio dito non smette di torturare il pulsante di scatto della macchina fotografica e meno male che ho portato in viaggio un paio di memory card di riserva perché ne sto consumando una intera solo stamattina…!

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Dopo un’ora abbondante trascorsa nei cieli di Bagan, Peter dà il segnale dell’atterraggio (“landing position!!”), assumo la posizione accovacciata che ci hanno mostrato prima della partenza ed il cestino rimbalza dolcemente sul terreno un paio di volte prima di fermarsi definitivamente nel mezzo di un campo, nella campagna alla periferia meridionale di Bagan.

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Arrivano i ragazzi dello staff con il pulmino dalle panche in legno di radica e con un camioncino su cui caricano rapidamente il pallone ed il cesto. Peter si presta a qualche foto ricordo, consegna il certificato di volo autografato, prezioso souvenir di questa esperienza davvero unica e indica il banchetto su cui lo staff ha predisposto qualche cibaria ed i calici riempiti di champagne. Un rapido brindisi ed eccomi sulla strada che riconduce in albergo, arrivo giusto in tempo per incontrare gli altri ospiti che, freschi e riposati, stanno terminando la prima colazione: mi guardano e capisco dalle loro occhiate curiose che vorrebbero sapere il motivo delle mie occhiaie e soprattutto di quel sorrisone soddisfatto che non riesco a togliermi dal volto.

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” As the sun breaks, above the ground
An old man stands on the hill
As the ground warms, to the first rays of light
A birdsong shatters the still

His eyes are ablaze
See the madman in his gaze

Fly on your way, like an eagle
Fly as high as the sun
On your way, like an eagle
Fly and touch the sun “

 

All pics by vikingandre.com

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Sapori d’India: il “lassi” a Jaipur

Jaipur è una tappa immancabile in qualsiasi itinerario di viaggio in India del Nord, il capoluogo del Rajasthan offre infatti al visitatore un’ampia varietà di monumenti e attrazioni, tutti di grande interesse: dall’iconico Palazzo dei Venti “Hawa Mahal” agli edifici del centro storico, come il “City Palace”, affrescati in colore rosa, dall’osservatorio astronomico “Jantar Mantar” all’imponente “Forte Amber”, fino alle botteghe del “Johari bazar” dove gli artigiani si tramandano da secoli le tecniche di lavorazione delle pietre preziose.

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Le strade a scacchiera racchiuse dalle mura di cinta rappresentano il cuore della città e furono dipinte in colore rosa nel 1863 dal Maharaja Ram Singh per dare il benvenuto al futuro Re d’Inghilterra Edoardo VII, figlio della Regina Vittoria, in visita in India: da allora gli edifici che si affacciano sulle vie del centro cittadino vengono periodicamente ravvivate con vernice rosa, colore simbolo dell’ospitalità.

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Durante i torridi mesi dell’estate rajasthana, la gente di Jaipur trova sollievo assaporando una dissetante bevanda a base di yogurt, tipica del subcontinente indiano: il lassi. Pare che l’origine del lassi sia da far risalire alla zona del Punjab, ma oggi questo drink è diffuso in numerose varianti in tutta l’India, il Pakistan ed il Bangladesh.

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La ricetta base consiste in un mix di yogurt, acqua, spezie e talvolta frutta; il lassi tradizionale è salato e insaporito con un pizzico di cumino, mentre la formula più popolare tra i bimbi indiani prevede l’aggiunta di miele o zucchero o succo di frutta o anche di polpa frullata di qualche frutto: il mango è il più diffuso, ma esistono versioni con la menta fresca, lo zafferano, l’acqua di rose, lo zenzero e la curcuma. Qualcuno ne irrobustisce il sapore e la consistenza con il burro mentre durante l’annuale festa dei colori Holi se ne prepara una variante, detta bhang lassi, a base addirittura di cannabis accompagnata dalle tipiche frittelle di verdura dette pakora.

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Chi desidera riprodurre a casa la ricetta del lassi al mango, non deve far altro che frullare insieme 250 ml di yogurt, 130 ml di latte, 4 cucchiaini di zucchero di canna, 200 gr di polpa di mango, un pizzico di sale e decorare i 4 bicchieroni che se ne ricavano con semi di cardamomo o pistacchi sbriciolati.

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Chi invece si trova in India e desidera assaggiare la versione originale del lassi di Jaipur deve intrufolarsi tra le botteghe del Johari bazar e raggiungere un piccolo spazio al numero 145: qui ci si imbatte in “Lassi Wala”, un negozietto che serve la fresca bevanda in tradizionali kulhads, bicchieri conici di terracotta, che da queste parti arricchiscono con uno strato di panna in cima al bicchiere. Non si tratta solamente di gustare una squisita specialità del posto, ma è anche l’occasione per concedersi un attimo di relax e magari per scambiare qualche parola con la gente del luogo.

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Tiziano Terzani, Confucio e Forrest Gump: pensieri sparsi di una notte in Vietnam

Sto sorseggiando una birretta fresca al piano superiore del ristorante Mango Mango di Hoi An, da uno dei balconcini che si affacciano sul mercato notturno della cittadina vietnamita. Mi ha raggiunto il mio amico Trung e sta ordinando al bancone. Tra un sorso e l’altro, sfoglio distrattamente le pagine ormai quasi ingiallite di una vecchia edizione di “Giai Phong! La liberazione di Saigon”, il libro in cui Tiziano Terzani racconta le vicende conclusive del conflitto tra Usa e Vietnam. Sotto di me, un’umanità di turisti e locali affolla le vie dello shopping serale, si gode come me la frescura e non smette di sciamare tra miriadi di bancarelle, luci e musica gracchiante. In lontananza scorre silenzioso il fiume, nero, ma punteggiato di piccole candele di carta galleggianti che qualche vecchina vende ai turisti per pochi dong.

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Sollevo lo sguardo dalle pagine e, del tutto casualmente, noto quella che sembra una sorta di delegazione: eleganti signore e funzionari in divisa, vietnamiti, accompagnano dei personaggi dall’aspetto occidentale, più anziani, in un atteggiamento tipico di chi fa gli onori di casa. Guardando meglio, noto che le t-shirt dei signori occidentali riportano le scritte “Vietnam War Veterans”, si tratta quindi di ex-soldati americani che hanno combattuto nel Sud Est Asiatico all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso; l’atmosfera è rilassata, gli americani si soffermano ad osservare le bancarelle che vendono le tipiche lanterne colorate di Hoi An, mentre gli accompagnatori vietnamiti si prodigano a spiegare e a sorridere, abbassando leggermente il capo nel classico modo ossequioso degli asiatici di queste parti. Un paio di ragazzi stanno filmando la scena per la televisione locale, mentre la gente comune si ferma a dare un’occhiata incuriosita, senza trattenersi dallo scattare qualche foto ricordo con il cellulare o addirittura qualche “selfie” con gli inaspettati ospiti.

Rimango un po’ perplesso, guardo il mio libro e mi tornano in mente le immagini di qualche giorno prima, quando ho cominciato il mio viaggio in Vietnam proprio dal capoluogo del Sud, Ho Chi Minh City, più nota come Saigon. E’ sempre utile intraprendere un viaggio in Vietnam dal suo ingresso meridionale: a Saigon si trovano molte chiavi che aprono le porte della comprensione di ciò che il Paese è oggi e diventerà in futuro. Una metropoli moderna, all’avanguardia con i suoi numerosi grattacieli in vetro e specchi, ma che conserva ancora interessanti testimonianze del suo passato, come gli edifici in stile coloniale della via Dong Khoi, cioè la vecchia Rue Catinat che sfocia nella piazza dove svettano la Cattedrale di Notre Dame, in mattoni rossi di Tolosa, e l’edificio delle Poste ideato dall’architetto Gustave Eiffel.

 

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Mi ero fermato davanti al Palazzo della Riunificazione, con la sua iconica cancellata e mi era sembrato proprio di trovarmi in mezzo alle vicende descritte da Terzani nel libro che ho tra le mani: gli ultimi elicotteri americani che si alzano dai tetti delle case, i carri armati nordvietnamiti che il 30 aprile 1975 entrano a Saigon, i soldati che si perdono e si fermano a chiedere la strada per il Palazzo presidenziale alla gente del posto, la stessa cancellata che viene abbattuta e la bandiera rossa e azzurra con la stella gialla che viene issata in cima all’edificio simbolo del Paese diviso.

Bevo un altro sorso di birra e, mentre assaporo il retrogusto delicato al gelsomino, vedo gli americani allontanarsi, inghiottiti dalla folla sorridente di Hoi An. Allora penso ai tunnel di Cu Chi, pochi chilometri fuori da Saigon, a quanto erano stretti mentre arrancavo nelle viscere umide della terra, a quanto quegli stessi americani fossero terrorizzati quattro decadi fa dal “nemico invisibile” dei Viet Cong che proprio attraverso quei cunicoli comparivano all’improvviso, attaccavano e poi sparivano nel nulla.

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Magari no, forse non erano soldati di fanteria. Mentre scompaiono in lontananza scorgo ancora le loro sagome alte e fisicamente integre, non erano “carne da trincea” come tutti quei ragazzi raffigurati nelle fotografie esposte al War Remnants Museum di Saigon: difficile scordarsi quegli sguardi allucinati colti dal fotografo mentre devastano un villaggio di contadini o brandiscono i resti di qualche nemico come fosse un trofeo. No, mi sa che forse pilotavano uno di quegli elicotteri giganteschi (oh, ma veramente enormi!) che si vedono nel cortile del museo o uno di quei mostruosi aeroplani B52 che vomitavano tonnellate di bombe a grappolo o ettolitri di agente arancio sulle foreste tra Laos, Cambogia e Vietnam. Uno di loro fu abbattuto sui cieli di Hanoi e catturato: ancora oggi la vecchia tuta da pilota del senatore John McCain è in mostra in una teca del museo-prigione di Hoa Lo ad Hanoi.

La perplessità davanti alla scena a cui ho appena assistito qui a Hoi An deriva probabilmente dalla mia cultura e mentalità occidentale: com’è possibile che i vietnamiti siano così accoglienti e gentili con persone che solo poco più di 40 anni fa si sono rese protagoniste di atrocità come quelle che si vedono nei musei di Saigon? Lo chiedo a Trung, il cui padre appena sedicenne era stato chiamato alle armi nell’esercito di Ho Chi Minh, vivendo (e subendo) quindi il conflitto sulla sua pelle. Dov’è la sete di vendetta, il rancore, l’antipatia almeno, per la bandiera a stelle e strisce che tanto dolore ha provocato nel suo popolo fino a pochi anni fa, tra l’altro per una causa ideologica che poi si è polverizzata nel vento della Storia ? Non c’è astio nei vietnamiti di oggi, nei giovani che imparano quella Storia un po’ dai libri ufficiali del sistema educativo socialista, un po’ dai racconti di fratelli, zii, nonne che certi periodi li hanno vissuti in prima persona, un po’ dai film americani, da internet, dal confronto con coetanei durante qualche scambio culturale all’estero.

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Da noi la mentalità è diversa e certe cicatrici sono più lente a guarire, spesso la sete di vendetta o il non dimenticare mai i torti subiti sono aspetti insiti nel nostro DNA. Quando ero piccolo, i miei genitori mi portavano spesso in montagna a Madesimo, potevano essere i primi anni Ottanta: mi ricordo di un personaggio già anziano, un po’ burbero e con la barba lunga. Pare avesse partecipato alla seconda guerra mondiale e provava un odio viscerale per gli Inglesi. Non so cosa gli avessero fatto gli Inglesi durante la guerra, magari gli avevano bombardato la diga vicino a casa o magari era stato fatto prigioniero ed era stato spedito qualche anno in India. Non ne ho idea, ma ricordo ancora perfettamente il suo astio e rancore, i miei occhi di bambino rimanevano attoniti a vedere quest’uomo che inveiva verso il cielo ogni volta che scorgeva un aereo, sfidandolo col bastone in legno come fosse ancora un bombardiere della Royal Air Force britannica…

Una delle grandi lezioni che si possono apprendere viaggiando in Vietnam risiede invece nella capacità della sua gente di non serbare rancore per chi è arrivato da nemico, se ne è andato da sconfitto ed è tornato con la mano tesa del partner commerciale, tecnologico ed economico: “Siete venuti da nemici, vi abbiamo combattuti; siete venuti da amici, vi abbiamo accolto”. La pagina della guerra è stata girata, capitolo chiuso, ora c’è McDonald di fianco al baracchino che vende pho, la tradizionale zuppa di manzo agrodolce vietnamita. Qui sono sbarcati Starbucks, KFC e Pizza Hut, nella periferia di Saigon c’è una sfilata di fabbriche che producono abbigliamento e tecnologia a marchio straniero e anche americano. Ciò che non è riuscito ad ottenere il napalm, l’ha conquistato il bigliettone verde….

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A mio parere, la bellezza di questo Paese è proprio da ricercare nella sua capacità di creare un equilibrio tra la millenaria tradizione asiatica in campo culturale, sociale, religioso ed i modelli economici, di sviluppo e crescita tipici del mondo occidentale attuale. In Vietnam coesistono la modernità e la tradizione, il socialismo di Stato ed il liberismo economico, l’ateismo, il buddismo ed il confucianesimo, l’immobilismo del mondo rurale e la veloce corsa al benessere delle città, le minoranze etniche di montagna vestite solo con paglia ed amuleti e le tribù urbane di giovani con lo smartphone sempre in pugno a caccia di wi-fi.

In Vietnam i contrasti e le diversità tendono ad ammorbidirsi come i sapori della seconda birra che sto sorseggiando in questa fresca serata a Hoi An: il retrogusto dolciastro del mango si mescola con l’aroma deciso del peperoncino fresco, dando vita ad un qualcosa di unico, fresco, innovativo. Faccio un ultimo tentativo con Trung: “Ma voi vietnamiti riuscite a guardare i film americani sulla guerra che si è svolta nel vostro Paese?”. “Certo che li guardiamo” mi risponde “ma non hanno molto successo qui. L’unico che ci piace è Forrest Gump perché non si vedono mai vietnamiti morti”. Giro lo sguardo per un momento verso il fiume dove le candeline di carta galleggianti sono ora moltissime e lasciano una scia di riflessi luminosi sull’acqua…

Jenny: Were you scared in Vietnam?

Forrest: Yes. Well, I.. I don’t know. Sometimes it would stop raining long enough for the stars to come out… and then it was nice. It was like just before the sun goes to bed down on the bayou. There was always a million sparkles on the water… like that mountain lake. It was so clear, Jenny, it looked like there were two skies one on top of the other. And then in the desert, when the sun comes up, I couldn’t tell where heaven stopped and the earth began. It’s so beautiful.

Jenny: I wish I could’ve been there with you.

Forrest: You were.

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In viaggio con i bambini: perché è meglio evitare il Sud Est Asiatico

Viaggiare con la propria famiglia è una delle esperienze che, se ben organizzata a misura dei giovani viaggiatori, maggiormente gratifica genitori e figli. Affinché la vacanza dei sogni non si trasformi in un viaggio da incubo, occorre pianificarla attentamente: in particolare si deve scegliere la destinazione del tour, la sua tipologia (culturale, sportiva, urbana, nella natura, itinerante, balneare ecc.) ed il periodo di effettuazione tenendo ben presente l’età dei bambini, le loro esigenze ed i loro interessi. Il rischio è infatti quello di destabilizzare eccessivamente i ragazzi e di suscitare in loro reazioni di totale rifiuto che raggiungono l’apice quando viene proferita la terribile frase “voglio tornare a casaaaaa!!!”: quello è il punto che sancisce il fallimento del viaggio in famiglia e che suscita il rimorso nei genitori per non aver preso al volo quell’occasione di 15 giorni alla pensione Bertozzi di Viserbella, pensione completa e ombrellone con sdraio inclusi, anziché sobbarcarsi la spesa e la fatica di attraversare mezzo mondo per vedere i propri figli e sé stessi stressati e scontenti.

Basandomi sulla mia esperienza diretta di travel designer specializzato in viaggi in Oriente e contemporaneamente di padre di 3 ragazzine di età compresa tra i 9 ed i 13 anni, vorrei spiegare qui le criticità che ho dovuto personalmente affrontare quando ho intrapreso un viaggio estivo nel Sud Est Asiatico (Singapore, Laos e Cambogia) con la mia famiglia.

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Il volo intercontinentale dura troppe ore. Dall’aeroporto di Milano Malpensa a quello di Singapore Changi sono previste circa 12 ore di volo, cioè mezza giornata da trascorrere nello spazio angusto di un aeromobile a cui vanno sommate 2/3 ore di presentazione in anticipo ai banchi del check-in. L’aereo non ha ancora chiuso il portellone e già le ragazze cominciano a maneggiare i comandi del monitor interattivo di cui Singapore Airlines dota tutti i posti. Tra decine di film, cartoni animati, documentari, giochi elettronici, video musicali, serie televisive, canzoni, immagini del volo da ogni angolazione, mappe digitali e altre infinite informazioni, le 12 ore “volano” via letteralmente. Ormai tutte le compagnie asiatiche (da Thai Airways a Cathay Pacific fino a Singapore Airlines) sono ai vertici delle classifiche sull’aviazione civile per comodità, cortesia del personale, modernità ed intrattenimento a bordo. Anche se il cibo servito non è mai di qualità eccelsa nessuna figlia è morta di fame e la fatica maggiore è togliere loro dalle mani il joystick e spegnere lo schermino per farle dormire un po’ prima di atterrare al mattino a Singapore. Ogni mezz’ora il mio stato semi-catalettico viene destato da Aurora che dandomi di gomito mi informa sulla rotta: “Daddy, siamo sull’Afghanistan; daddy, abbiamo passato l’India; daddy, posso alzare la tenda del finestrino (cioè l’oscurante) per vedere se ci sono i pirati nel mare della Malesia???”.

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Le città in Asia sono megalopoli inquinate, trafficate e pericolose. Le porte automatiche si aprono e ci troviamo nel salone degli arrivi dell’aeroporto di Singapore Changi dove una fila di taxi ci attende per condurci in città. Di solito c’è la fila di gente che attende un taxi, qui c’è una fila di taxi che attende noi. Una gentile signora ci fa accomodare nel suo taxi e dopo mezz’ora di autostrade, tunnel e cavalcavia ci sembra di essere giunti in una downtown americana: l’orizzonte è un susseguirsi di grattacieli, vialoni a 6 corsie, altissimi alberghi con i vetri a specchio che inghiottono enormi centri commerciali, i volti delle persone richiamano i lineamenti asiatici, ma i vestiti sono in stile occidentale e l’idioma parlato e visibile sulle insegne è sempre l’inglese. A differenza delle downtown americane, però, è tutto lindo, ordinato, efficiente a livelli che definirei svizzeri. Durante il soggiorno nella città-Stato di Singapore prendiamo la funicolare per Sentosa, un’isola trasformata in parco dei divertimenti, ceniamo lungo il fiume a Clarke Quay e passeggiamo intorno a tutta la Marina Bay, ammiriamo i giochi d’acqua dal battello sotto l’imponente albergo Marina Sands Bay e assistiamo alla costruzione delle tribune lungo un tratto di strada che avrebbe da lì a poco ospitato il gran premio di Formula 1. Grazie ad una capillare ed efficiente rete pubblica di bus e metropolitana (l’isola ha una superficie ridotta e l’uso dell’auto privata è disincentivato per non ingolfare le strade) non ci facciamo mancare una camminata lungo l’arteria commerciale di Orchard Road, con le sue infinite vetrine e opportunità di shopping e lungo i vialetti del parco “Gardens at the Bay”, dove è piacevole fare due passi la sera ammirando enormi alberi artificiali (alti fino a 50 metri) tutti illuminati e non dissimili al celebre “albero della vita” dell’Expo milanese del 2015. E’ facile intuire che, in un ambiente ovattato e opulento come quello di Singapore, il pericolo maggiore sia rappresentato dal rischio di fondere la carta di credito per i prezzi non esattamente bassi oppure di essere assordato dal motore di una Lamborghini che alza i giri del turbo in attesa del verde al semaforo.

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Le differenze culturali tra Europa ed Asia sono troppo ampie e scioccanti. Mentre le ragazze si godono un bel bagno in piscina sul tetto dell’albergo, individuo sulla mappa “Little India”, il quartiere indiano, la nostra successiva tappa del soggiorno a “Singapura”: l’origine del nome risale al sanscrito “singha” = leone e “pura” = città ed evidenzia le radici indiane della “Lion City”. Little India è un assaggio (non troppo piccante) della vera big India, grazie ai suoi profumi intensi, ai suoi colori brillanti, ai sapori dei suoi ristoranti, ai numerosi negozietti traboccanti di merci, al vivace mescolìo di umanità varia che brulica nelle sue strade. Nel tempio Sri Veeramakaliamman di Little India colgo un lampo di sorpresa negli occhi delle mie ragazze: i piedi nudi, i colpi ritmati sui tamburi, le preghiere quasi urlate dei bramini, la gente addossata l’una all’altra che recita la “puja” e offre fiori e bocconcini di cibo alle divinità induiste. Questa escursione fuori dall’usuale e dalle proprie abitudini culturali alimenta la loro curiosità e mette in moto le rotelline dei loro pensieri. E mentre una gentile signorina originaria del Tamil Nadu colora le loro mani con arzigogolati motivi all’henné, mi rendo conto che il fascino di Singapore ed il ricordo che le ragazze conserveranno più o meno inconsciamente risiede proprio in questo: 5 milioni e mezzo di abitanti, una mescolanza di lingue (inglese, malese, mandarino, tamil…), una miscela di tratti somatici e colori della pelle (cinesi, malesi, europei, indiani…), una pacifica convivenza tra cristiani, musulmani, buddisti, taoisti e induisti, una piccola società sì ricca e benestante, ma che è arrivata ad esserlo anche grazie al proprio modello multietnico e multiculturale, improntato al rispetto delle regole e del fragile ambiente in cui vive.

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Il clima estivo nel Sud Est Asiatico, caldissimo ed umidissimo, è insopportabile. Sorvolando il Laos, dall’oblò rigato da gocce d’acqua scorgo a fatica, tra i nuvoloni plumbei carichi di pioggia, le foreste solcate da fiumi gonfi e marroni.  Mi assale qualche dubbio: vuoi vedere che gli stravolgimenti climatici sono arrivati anche qui e che al posto di qualche breve temporale pomeridiano il viaggio si svolgerà tutto sotto la pioggia come in quei film che raccontano le vicende dei soldati americani in Vietnam??? Atterriamo a Luang Prabang e la pista dell’aeroporto è tutta bagnata, ma non piove più. Puntuale il monsone aveva scaricato poco prima il suo bel temporale pomeridiano e nel tempo in cui abbiamo raggiunto (rigorosamente a piedi, non siamo più a Singapore con i comodi “fingers” e l’aria condizionata di Changi!) l’edificio dell’immigration dalla scaletta del volo, l’asfalto si è asciugato, avvolgendoci in una nuvoletta di vapore e sudore. Erika mi guarda ed esclama “mmmh, qui l’aria che si respira pesa di più!”. Esatto ! Le temperature in estate da queste parti raggiungono i 30/35 gradi, ma sono i tassi di umidità che danno maggiormente fastidio: si è costantemente sudati ed è importante bere frequentemente e coprirsi quando si passa dall’esterno a luoghi con l’aria condizionata (tenuta in genere a livelli artici). Il monsone, con la sua pioggia quotidiana, breve ed intensa, è sempre benvenuto qui in estate: abbatte la calura, disseta i campi, fa sbocciare stupendi fiori tropicali che soffondono l’aria di intensi profumi. E sì, quest’aria è più pesante della nostra, ma si respira bene ugualmente. frangipaneLuang Prabang è adagiata in una piccola valle alla confluenza di due fiumi, il placido Mekong e l’impetuoso Nam Khan: saliamo in cima alla collinetta Phousi, nel centro della cittadina e qui dall’alto si vedono bene i due corsi d’acqua che Tiziano Terzani evoca nel suo libro “Un indovino mi disse” quando riflette sulla vita che scorre come le acque fluviali. Oggi la corrente corre veloce, gonfia i fiumi e alimenta ruscelli, canali e risaie. Non lontano da Luang Prabang le acque fresche delle cascate di Kuang Si fragorosamente si infrangono sulle rocce, dando vita ad una grande nuvola di goccioline che i raggi del sole attraversano frammentandosi nei colori dell’arcobaleno. In questo ambiente spettacolare, ci tuffiamo nelle piscine naturali dalle acque turchesi: ok, fa caldo, ma il divertimento è totale, non è da tutti i giorni nuotare sotto una cascata ! Abbiamo scelto tutti gli alberghi del viaggio dotati di piscina in modo che al ritorno accaldati dalle visite ci fosse sempre in programma un bel bagno rinfrescante e ad aspettarci un bel bicchierone di lime-soda con un pizzico di zucchero e sale. Ed in bassa stagione costa tutto la metà…

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Nel Sud Est Asiatico mettono il ghiaccio in tutte le bevande, il cibo è troppo speziato, le condizioni igieniche lasciano a desiderare ed il rischio di contrarre malattie e virus intestinali è troppo elevato.  Il ghiaccio nella birra non si mette. Punto. Anche se fa caldo e se dopo 5 minuti che si trova nel bicchiere diventa un brodino tiepido. In Laos ed in Cambogia questa cosa non vogliono capirla, al massimo estraggono il boccale direttamente dal freezer, ma una bella cucchiaiata di ghiaccio non la negano mai. Questo dilemma etico non scalfisce le mie figlie, che sono ancora piccole e non bevono birra, disinteressandosi quindi ai miei tentativi di tenerla fresca senza annacquarla. Quasi dappertutto il ghiaccio viene prodotto con l’acqua delle bottiglie sigillate o comunque con acqua sanificata, il rischio di mischiare la propria bevanda con acqua del rubinetto di dubbia provenienza non è elevatissimo, piuttosto è da evitare la tentazione di scolarsi in un colpo una intera lattina di Coca Cola gelida dopo essersi arrampicati per 2 ore sulle rocce assolate dei templi di Angkor: più che il ghiaccio, infatti, può far danni soprattutto la temperatura troppo bassa del liquido che si ingerisce. La frutta che si trova qui è 10 volte più gustosa di quella che, colta acerba, matura poi nei container prima di finire sui banchi dei nostri supermercati: quindi basta un assaggio di mango, banane o frutti della passione locali e le ragazze si dimenticano dell’esistenza di Coca Cola e Fanta preferendo un’infinità di succhi, spremute e centrifughe varie. Per combattere l’inquinamento da bottigliette di plastica, molti alberghi e resort regalano agli ospiti delle borracce in metallo con loghi, disegni e colori vivaci, da riempire con acqua fresca purificata presa da appositi boccioni: frutta esotica, acqua ecologica, chilometro zero… ma vuoi vedere che in questo viaggio le fanciulle imparano anche qualcosa di utile sulla biodiversità e l’eco-sostenibilità? Lavarsi i denti con l’acqua di una bottiglietta non solo riduce il rischio di contrarre un virus intestinale, ma serve anche a non dare per scontato che basta girare un rubinetto e si ha tutta l’acqua potabile che si desidera, per tutto il tempo che si desidera. Il buon senso ci fa muovere con una bella dotazione di Amuchina in gel, fazzoletti disinfettanti e fermenti lattici da ingerire ogni mattina, un attacco di dissenteria a queste latitudini può sempre capitare, ma siamo fortunati e torniamo tutti e 5 con i nostri chiletti al loro posto.

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Anche quando organizzo viaggi in Laos e Cambogia per i miei clienti, consiglio sempre di lasciare liberi i pasti, tanto è varia e di qualità l’offerta gastronomica locale. In una regione baciata dal sole e irrorata di umidità tutto l’anno, la disponibilità di prodotti agricoli freschi è enorme e spazia dal riso alle verdure, dalla frutta alle spezie, senza dimenticare pollame e dolci. E’ impossibile non trovare qualcosa che piace al palato dei giovani viaggiatori: l’uso di spezie completamente avulse dai nostri gusti è raro qui, le salse piccanti vengono servite a parte se le si desidera e quasi dappertutto si trovano anche piatti di origine occidentale (patatine, i gloriosi “spagetti bolognaise”, la pizza) o cinese (involtini primavera, riso saltato, noodles) che in genere i bambini non disdegnano assaggiare. L’eredità coloniale francese ha poi influito molto sulla gastronomia locale e ha ammorbidito il sapore troppo autoctono di molti piatti, lasciando anche una bella eredità di forni e panetterie che con la loro produzione di croissants, crêpes e baguettes forniscono gli ingredienti base per squisite merende. E’ con l’acquolina in bocca che condivido la “top ten” dei locali e ristoranti preferiti dalla nostra “family on tour”. Papà: Level33 di Singapore e Siem Reap Brew Pub di Siem Reap; mamma: The Belle Rive Restaurant di Luang Prabang e Jaan Bai Restaurant di Battambang; Marta: The Tangor di Luang Prabang e FCC Restaurant di Phnom Penh; Erika: Coconut Garden di Luang Prabang e Sokkakh River di Siem Reap; Aurora: Manda de Laos di Luang Prabang e Tuk Tuk Pizza di Siem Reap. Quest’ultimo non è un vero ristorante, ma ha entusiasmato tutti: alle spalle del National Museum di Angkor, c’è un anonimo marciapiede arredato con piccoli tavoli e seggioline in plastica colorata che sembrano a misura di bambola e dal retro di un tuk-tuk (il tipico Ape Piaggio solitamente utilizzato come taxi) trasformato in forno a legna appaiono fragranti pizze che nulla hanno da invidiare a quelle nostrane. A qualsiasi latitudine, una buona fetta di pizza è la gioia di tutti, grandi e soprattutto piccoli !

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Nel Sud Est Asiatico è pieno di animali pericolosi, di insetti velenosi e di zanzare infette. A Vientiane, la capitale del Laos, vivono alcuni amici italiani e a cena ci raccontano come si svolge la loro vita quotidiana da queste parti. Avere la possibilità di ascoltare qualcuno che abita stabilmente sul posto, ma che è originario del proprio Paese è un’occasione imperdibile per i giovani viaggiatori di scoprire le diverse abitudini, consuetudini, mentalità e interpretazioni della vita che ha la gente del posto rispetto a chi viene dall’Italia. Francesco e Mauro sono fonti inesauribili di aneddoti e con la loro simpatia conquistano immediatamente le ragazze, specialmente quando l’argomento scivola sul tema degli insetti a tavola. Va da sé che nei territori tropicali caldo umidi del Sud Est Asiatico gli insetti trovino l’habitat ideale per diffondersi e, grazie alla loro abbondanza, la popolazione locale non disdegna catturarne qualcuno per trasformarli in uno spuntino veloce: grilli, cavallette, larve, ragni ogni tanto si trovano suddivisi in ciotole su qualche bancarella del mercato, magari conditi con una salsina dopo essere stati rigorosamente fritti. Come insegna Homer Simpson, qualsiasi cosa dopo una bella frittura diventa commestibile e anche gli insetti locali al palato hanno un sapore quasi identico tra loro, sanno fondamentalmente di fritto. L’olio per friggere è importato dalla Tailandia e costa, quindi viene utilizzato più e più volte: magari, come si sente dire in giro, gli insetti diventeranno il pasto del futuro, ma per ora siamo tutti concordi nel lasciare che resti il pasto della lucertolina locale, il geco.

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Ogni abitazione, ristorante, albergo, negozio in Laos ha il suo geco: innocue lucertole un po’ più pingui e pigre (sono laotiane, d’altronde…) rispetto alle nostre, dotate di occhi grandi e di particolari zampette capaci di attaccarsi ovunque, che di notte si posizionano in genere sul soffitto e intorno alle luci per banchettare con gli insetti che svolazzano appunto intorno alle lampade. La forma dei gechi è unica e da queste parti si dice che il loro inconfondibile versetto porti fortuna se la bestiolina lo ripete 7 volte: all’inizio le ragazze erano un po’ intimorite dalla costante presenza sopra le loro teste di queste lucertole dai grandi occhi (tra l’altro ben 350 volte più sensibili degli occhi umani), ma col passare dei giorni la loro discreta presenza passa sempre più inosservata e anzi, quando entrano in un posto nuovo, ne scrutano la volta alla ricerca dell’angolo del geco padrone di casa. Una grande virtù dei gechi è la loro dieta a base di zanzare, falene, mosche, scarafaggi, scorpioni: un motivo in più per lasciarli vagare indisturbati sul soffitto della propria camera d’albergo è proprio la circostanza che, se per caso entra un insetto, il geco se lo mangia. Oltre a questo rimedio naturale, nei luoghi più abitati e meno remoti del Sud Est Asiatico la zanzara viene combattuta con oli essenziali profumati molto efficaci e gradevoli: le ragazzine ogni sera prima di uscire si spruzzano qualche goccia “di profumo” e gli insetti se ne stanno alla larga. Certo, qui è facile: la zanzara più diffusa è un insettino minuscolo che, anche se pizzica, provoca un ponfo che dopo 10 minuti già scompare e soprattutto ha l’abitudine di palesarsi solo di sera, dopo il tramonto. A Battambang assistiamo al tramonto in piena campagna, sul cosiddetto “trenino di bambù”, cioè una pedana di strisce di bambù sospinta da un piccolo motore lungo i binari di una vecchia ferrovia in disuso: ci sono insetti, ci pizzica qualche zanzara, ma lo spettacolo del sole che si nasconde dietro l’orizzonte dopo aver infiammato il cielo di rosso, rosa e viola fa scordare qualsiasi puntura. Forse in qualche remota foresta di confine con il Vietnam o con la Tailandia ci sono zanzare tigre potenziali portatrici di malaria: ma chi porta i bambini a fare trekking nel fango della giungla, tra le tribù che vivono in villaggi senza acqua corrente ed elettricità, situati a 500 km dall’ultimo centro abitato?

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Servono pochi passi a piedi dalle cascate di Kuang Si, presso Luang Prabang, per imbattersi in una moltitudine di insetti totalmente innocui e di grande bellezza: le farfalle del “Butterfly Park”. In un’area naturale ricca di vegetazione e attraversata dalle acque che scendono dalle cascate, Olaf e Ineke, due simpatici olandesi trapiantati in Asia, hanno dato vita ad un parco dove svariate specie di farfalle colorate sono libere di volare tra piante e fiori e di essere osservate da vicino. Olaf ha creato anche un laghetto dove immergere i piedi e farseli “mordicchiare” e massaggiare da decine di pesciolini: il pericolo maggiore per le ragazze qui è non riuscire più ad andarsene, tanto è gradevole e rilassante il luogo! Identico pericolo in cui incorriamo, sempre nei pressi di Luang Prabang, quando facciamo la conoscenza con gli elefanti dell’Elephant Village Sanctuary & Resort. Originariamente il Laos era denominato “Lan Xang”, cioè “la terra di un milione di elefanti”, tanto era diffuso questo pachiderma; oggi ne restano molti meno esemplari, circa un migliaio, e centri come l’Elephant Village si occupano della cura e della sopravvivenza di questi animali, in un ambiente a loro naturale, lontano da lavori pesanti a cui spesso sono sottoposti da giovani, in un progetto che coinvolge in modo sostenibile sia la comunità locale che i visitatori. L’elefante asiatico è più piccolo e docile di quello africano, ma sufficientemente forte da essere sfruttato nelle foreste per il trasporto di legname; se ben curato e nutrito può vivere oltre i 50 anni, i più longevi arrivano anche a 70/80 anni di età. Il personale del campo conquista subito le ragazze con la gentilezza e la dolcezza che sembrano innati in tutti i laotiani: la nostra guida, in un inglese semplice e comprensibile, spiega i comandi vocali di base per guidare gli elefanti e poi ci conduce a dare loro una ricca colazione a base di banane. Accarezzare la proboscide di un elefante, toccare le loro orecchie giganti e farsi risucchiare le banane dalle proprie mani (le mangiano con tutta la buccia!) è un’esperienza unica ed entusiasmante sia per i piccoli che per i grandi, superata solamente dalla passeggiata sul loro dorso: abolite da alcuni anni le fastidiose selle in legno (“howdah”), si sale direttamente sul dorso dell’animale (ciascuno con il proprio “mahout”, il suo fedele custode) e si percorre un breve tratto di foresta a cavalcioni di queste splendide creature. Si attraversa anche il fiume dove gli elefanti non mancano di immergersi e di fare il bagno spruzzando con la proboscide i propri “ospiti”, per il divertimento sia degli animali che dei visitatori e soprattutto dei mahout che si godono la scena. E’ dura per le ragazze allontanarsi da Maxi, il vivace e goloso cucciolo ultimo nato (2013) e da Mae Kham Koun, l’elefante più grande del campo, nata nel 1971, docile e intelligente, che suscita tenerezza anche per la sua zampa ferita da un ordigno esploso quando lavorava nell’industria del legname.

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Gli orrori della guerra, tuttora visibili in Indocina, non sono adatti ai bambini e rovinano la serenità della vacanza. UXO è una sigla che significa “un-exploded ordinance” e fortunatamente negli ultimi tempi è sempre più raro nel Sud Est Asiatico scorgere cartelli che riportano queste 3 lettere inquietanti: ricordano che nel terreno dove si sta camminando esistono ordigni non esplosi. Durante la guerra del Vietnam, il presidente americano Kennedy autorizzò le prime missioni segrete di bombardamento sul suolo laotiano inizialmente con lo scopo di contenere le azioni dei ribelli comunisti locali contro la monarchia: tra il 1964 ed il 1973, i bombardieri statunitensi scaricarono sul Laos circa 2,5 milioni di tonnellate (due virgola cinque milioni!! di tonnellate!!) di ordigni, con l’obiettivo di interrompere i rifornimenti che avvenivano tra il Vietnam del Nord ed i ribelli Vietcong nel Vietnam del Sud lungo il cosiddetto “sentiero di Ho Chi Minh”, una sorta di corridoio situato sul confine tra Laos e Vietnam. I B52 americani durante le loro 580.000 missioni dal Siam (Tailandia) al Vietnam non mancavano di sganciare sul Laos e sulla Cambogia (anch’essa sospettata di favorire i ribelli comunisti del Vietnam meridionale) soprattutto le famigerate “bombe a grappolo”: questi ordigni, di forma sferica e grandi come palline da tennis, erano contenute in una bomba guscio che prima di toccare terra si apriva rilasciando il suo contenuto di decine di bombe più piccole che assomigliavano ad un grappolo d’uva prima di esplodere sul terreno. Il 30% delle “cluster bombs” si conficcò nel terreno morbido o fangoso delle foreste e delle campagne laotiane/cambogiane senza esplodere: l’elefante Mae Kham Koun, impegnata a trasportare legname nella foresta, insieme a centinaia di contadini, cercatori di rottami e soprattutto bambini intenti a giocare all’aria aperta sono rimasti vittima di questi ordigni inesplosi nel corso degli ultimi 45 anni. COPE-LaosLa probabilità per un viaggiatore che oggi visita il Laos e la Cambogia di imbattersi in terreni infestati da UXO è estremamente remota e, a meno che decida di cercarle apposta, le testimonianze del periodo bellico sono poco visibili. A mio parere, senza necessità di rovinarsi le vacanze con immagini crude e violente, un’infarinatura sugli eventi (abbastanza recenti, parliamo di circa 4 decadi fa) che hanno profondamente inciso sulla storia di questa porzione di mondo è fondamentale per comprendere molti aspetti che contraddistinguono il Laos e la Cambogia attuali. E questa infarinatura ritengo sia utile sia agli adulti che ai più giovani: Storia e Geografia ci forniscono sempre le coordinate culturali e gli strumenti interpretativi giusti per viaggiare, nel tempo e nello spazio, con cognizione di causa. Non è complicatissimo intraprendere una conversazione con i locali (soprattutto con le guide) che tratti di argomenti sensibili come la guerra, il comunismo, i campi profughi: tutti hanno esperienze di quel periodo storico, dirette o tramite i racconti di qualche parente prossimo e la visione della vita che hanno qui (la guerra c’è stata, è finita, la pagina della storia è stata girata e ora si va avanti) consente di poter interloquire con molta schiettezza su argomenti che altrove sarebbero tabù. E’ un’occasione unica per le giovani menti poter ascoltare aneddoti e racconti direttamente dalla voce dei protagonisti, non è poi così diverso dall’ascoltare i nonni che condividono con i nipoti la propria saggezza ed i propri ricordi: come spesso accade, certi argomenti che ci regala il passato sono utili anche per interpretare il presente. C’è poi una visita che concretamente può nutrire le coscienze dei più giovani senza ovviamente traumatizzarli: la C.O.P.E. (The Cooperative Orthotic and Prosthetic Enterprise) in Laos è un’organizzazione no-profit che garantisce assistenza, riabilitazione e fornitura di protesi alle persone con disabilità motorie conseguenza di incidenti con le bombe inesplose UXO. Il centro visitatori di Vientiane è una fonte preziosa di informazioni, video e testimonianze: un giro da queste parti, oltre ad essere molto educativo, è spesso anche emozionante e commovente.

Laos e Cambogia sono Paesi molto poveri e non ha senso andare in vacanza con i bambini in mezzo alla povertà. Gran parte dei fruitori dell’assistenza fornita dalla COPE sono persone “povere”, cioè non in grado di sostenere autonomamente le spese per le cure e le protesi. In effetti, dal punto di vista meramente economico, Laos e Cambogia si posizionano piuttosto indietro nelle classifiche mondiali relative a PIL, reddito pro-capite, capacità d’acquisto. Il medico svizzero Dr Beat Richner ha creato una rete di ospedali gratuiti Kantha Bopha Children’s Hospitals che negli ultimi 40 anni ha fornito assistenza pediatrica di alta qualità completamente gratuita ai bambini cambogiani e alle loro famiglie: il sistema sanitario locale è infatti carente, le infrastrutture statali, la spesa sociale ed i servizi pubblici anche i più basilari spesso qui sono insufficienti e di livello molto basso. Uno potrebbe chiedersi che gusto ci sia a trascorrere le vacanze con le proprie figlie in luoghi afflitti dalla povertà. In realtà, a differenza di certi Paesi africani, la gente qui non muore di fame, raramente si vedono in giro bambini denutriti o in condizioni traumatiche, la terra è fertile e generosa, il clima caldo umido tropicale favorisce l’agricoltura e finché gli stravolgimenti climatici non distruggeranno l’ecosistema locale è infrequente incappare in vere e proprie carestie. La cosiddetta povertà riguarda prevalentemente il possesso di cose e di denaro. Da questo punto di vista, gran parte dei laotiani e dei cambogiani è povero: non possiede tanto denaro, tanti oggetti, tante scarpe, tanti capi di abbigliamento, tanti giocattoli, tanti libri, tante matite, tante case, auto, moto o biciclette…. Ciò che hanno è poco e lo riutilizzano un’infinità di volte, magari aggiustandolo spesso, finché l’oggetto non si disintegra letteralmente. Per chi vive in una società come la nostra, improntata all’economia di consumo, alla compravendita finalizzata al consumo, alla produzione di beni destinati al consumo, alla creazione di bisogni fittizi da soddisfare con il consumo, immergersi in una società dove gran parte delle persone consumano solo ciò di cui ha bisogno (e spesso anche meno) può essere estremamente educativo. Siem Reap ed i suoi templi si possono raggiungere via strada da Phnom Penh e Bangkok oppure in aereo da Bangkok, Singapore, Hong Kong ecc. C’è anche una terza via, quella fluviale e lacustre, che partendo da Battambang risale il fiume Sangke fino al lago Tonlé Sap e poi raggiunge il molo ai piedi della collina di Phnom Krom, situato ad una quindicina di km da Siem Reap. Seppure più lunga e disagevole delle altre, questa terza via è la mia preferita: il percorso fluviale consente di vedere con i propri occhi la semplicità delle case, dei villaggi, della vita rurale in Cambogia lontana dai centri turistici e dai loro alberghi, negozi e ristoranti. Qui i bambini hanno UN vestito e UN paio di infradito in plastica, vivono in palafitte di pochi metri quadrati con una lamiera per tetto ed il fiume come wc, vasca da bagno, lavatrice e lavapiatti; qui le persone vivono di pesca e di agricoltura: chi pesca vende il pesce a chi vende loro le verdure dell’orto, in una sorta di fragile mercato locale di sussistenza. Il lusso è rappresentato da un piccolo televisore o da una radiolina gracchiante a batterie. La nostra imbarcazione scivola rumorosamente tra mangrovie, canali bordati da palme da cocco, nasse che fluttuano nella corrente cercando di intercettare qualche pesce guizzante nelle acque scure, impalcature in bambù per la pesca con le reti quadrate, palafitte in legno e lamiera aggrappate alle rive del fiume. Possiamo definire “povertà” ciò che scorre davanti ai nostri occhi? Probabilmente sì, ma nelle espressioni del viso delle ragazze, nei loro occhi, non scorgo shock, ma una presa di coscienza: siamo fortunate a vivere nel comfort e in una casa con un tetto e dei muri, dobbiamo essere felici di avere il piatto pieno ad ogni pasto, non lamentiamoci dei compiti e dei lavoretti da svolgere quando i nostri coetanei qui si alzano all’alba per aiutare i genitori nei campi o nella pesca per poi andare a scuola e studiare la sera a lume di candela…. Tuttora, quando qualcuna si lascia andare ad un capriccio a casa, le altre le ricordano di come vivevano in semplicità i ragazzini cambogiani che studiavano musica con padre Mark alla scuola galleggiante di Prek Toal oppure di come aiutavano i genitori le ragazzine di Battambang che per guadagnare qualche moneta extra vendevano braccialetti e animaletti di fili d’erba fatti a mano (poi alla fine sono diventate amiche e gliene hanno regalati un mucchio) o infine la concentrazione dei bimbi del villaggio Hmong vicino a Kuang Si mentre giocavano serissimi a spostare dei piccoli sassi su una pietra più grande. Ciò che colpisce, in queste situazioni di semplicità e spesso povertà, sono la serenità ed il sorriso che non manca mai sul volto di giovani e bambini locali. Come quello della bambina, curioso e timido, che in sella al motorino con il suo papà affianca il nostro tuk-tuk ad un semaforo di Siem Reap: nessuno delle mie figlie dimenticherà l’espressione dolcissima di questa bimbetta di pochi anni quando le abbiamo allungato un piccolo peluche in regalo. Apprezzare ciò che si ha, dare il giusto valore alle cose, non temere di condividere con gli altri: questa è la ricchezza che ci dona un viaggio in Paesi (apparentemente) poveri come il Laos e la Cambogia.

Non esiste una formula chimica infallibile che garantisca il successo di un viaggio, specialmente se svolto in famiglia con protagonisti in giovane età, specialmente se effettuato in aree del mondo lontane e non usuali. Un buon viaggio è sempre il risultato di una miscela di fattori sapientemente dosati: esperienza, fortuna, abitudine a viaggiare, educazione, organizzazione flessibile, equilibrata e capace di assorbire gli inevitabili imprevisti, attenzione agli interessi e alle esigenze di tutti e… una fornitura massiccia di fermenti lattici! Se questi ingredienti vengono preparati e amalgamati con cura, l’esperienza di viaggio non può che risultare piacevolmente gustosa e ricca di tanti bellissimi ricordi da assaporare insieme per tutta la vita.

A big “thank you” to Francesco, Mauro P, Andrea, Mauro B, Sombath, Filiberto and all our friends in Asia

 

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Isfahan e svariati altri motivi per visitare l’Iran (nonostante Trump)

Basta osservare una mappa per rendersi conto della centralità dell’Iran nel mondo mediorientale: più di un milione e seicentomila chilometri quadrati di territorio (per intenderci, l’Italia copre una superficie poco superiore ai trecentomila chilometri quadrati) che si estendono dal Mar Caspio al Golfo Persico, dalle catene montuose condivise con Turchia, Armenia, Azerbaijan e Iraq fino ai deserti di confine con Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan. L’altipiano iranico si trova mediamente ad un’altitudine di 1200/1300 metri e, pur in gran parte desertico, si trasforma improvvisamente in imponenti catene montuose quando volge lo sguardo a nord (il monte Damavand raggiunge ben 5600 metri di altezza) oppure in spiagge e coste punteggiate di isole, quando volge lo sguardo a sud (le più grandi sono Qeshm, Kish e Lavan, circondate da un pescoso mare color cobalto). Questa posizione geografica delimitata da ben sette confini nazionali, la vastità del suo territorio e la varietà delle sue caratteristiche climatiche e morfologiche rendono l’Iran un Paese focale nella mappa del Medio Oriente, una sorta di raccordo tra i mondi, le culture e la Storia dell’Occidente e dell’Asia.

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Il clima è un importante fattore da tener presente quando si intende pianificare un viaggio in Iran, poiché in un territorio ampio e morfologicamente variegato, regioni diverse presentano microclimi differenti. Chi effettua un tour completo del Paese, per esempio da Tabriz a Shiraz, deve considerare che l’altopiano iranico si trova ad altitudini superiori ai mille metri, con caratteristiche climatiche aride e continentali. Pertanto i periodi più gradevoli, con temperature piacevolmente tiepide e scarse precipitazioni, corrispondono alla nostra primavera (da metà marzo a metà giugno) e al nostro autunno (da metà settembre a fine ottobre). I mesi invernali sono piuttosto rigidi, con possibilità di pioggia e talvolta neve: coprendosi bene, un viaggio invernale in Iran risulterà comunque piacevole anche per il minor numero di visitatori ai vari siti. L’estate iraniana è torrida, seppur generalmente secca: l’obbligo di indossare velo e maniche/pantaloni lunghi può rivelarsi fastidioso, soprattutto per le donne, ma prevedendo veicoli ed alberghi dotati di impianti di aria condizionata è possibile visitare il Paese anche tra luglio ed agosto.

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Viaggiare in Iran significa spogliarsi di ogni preconcetto per prepararsi ad un tuffo nella diversità socioculturale e ad un vero e proprio salto nella Storia. Grazie alle sue strategiche caratteristiche geografiche, fin dagli albori della civiltà umana l’altopiano iranico è stato un luogo di passaggio, di scambio commerciale, di confronto culturale e anche di scontro, di conquista. Qui si trova una delle rarissime teocrazie contemporanee (le altre sono –con vari distinguo ed interpretazioni– l’Arabia Saudita, Israele e lo Stato del Vaticano), con tutta una serie di implicazioni sul piano sociale e giuridico che questa struttura politica comporta. Qui si trova anche la culla della Storia, il Paese è infatti un immenso museo a cielo aperto, vivo e ricchissimo di testimonianze, reperti, memorie.

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Museo Iranbastan, Tehran (vikingandre.com)

Un viaggio in Iran è come spostarsi quotidianamente e contemporaneamente nello spazio e nel tempo, nell’ambito di una società fondata su un’identità forte, differente, ma profondamente ricca ed improntata all’ospitalità.

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Museo di Arte Islamica, Tehran (vikingandre.com)

Osservando le raffinate decorazioni della moschea dello sceicco Lotfollah ad Isfahan al viaggiatore attento non può non venire in mente l’armoniosa calligrafia che impreziosisce le pareti del Taj Mahal di Agra, in India; ammirando le tombe reali scavate nella roccia di Naqsh-e Rostam e le suggestive rovine di Persepoli, il pensiero corre alla fondazione dell’antico regno persiano, a Ciro Il Grande, a Dario I, alle successive imprese di Alessandro Magno che introdusse in Asia principi di cultura ellenica; passeggiando per i giardini delle antiche case dei mercanti di Kashan si immaginano quali ricchezze, sotto forma di pietre preziose, tappeti, spezie e anche idee e forme culturali, sono transitate per queste terre, lasciando importanti tracce; percorrendo gli ambienti del Palazzo Golestan di Tehran, tra saloni sfarzosi e fontane zampillanti, ben si comprende la volontà della dinastia Qajar di mescolare ed integrare le tecniche decorative tradizionali persiane con le influenze architettoniche occidentali.

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Moschea dello sceicco Loftallah a Isfahan o Taj Mahal di Agra ? (vikingandre.com)

Anche chi non è particolarmente appassionato di Storia e di parallelismi tra epoche diverse, troverà in Iran numerosi stimoli su cui riflettere e di cui interessarsi: per esempio, il cinefilo riconoscerà a Yazd i luoghi in cui Pasolini girò alcune scene della pellicola “Il fiore delle Mille e una Notte” (1974), l’appassionato di natura e paesaggi non perderà l’occasione di fotografare i diversi ecosistemi del deserto iraniano intorno a Kerman, l’intenditore di oggetti artigianali troverà soddisfazione nel contrattare un tappeto o una brocca in peltro nei bazar di Isfahan e Shiraz.

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Bazar di Isfahan (vikingandre.com)

Ogni tappa di un itinerario in Iran si arricchisce anche di un aspetto da non trascurare: quello culinario. La disponibilità di risorse naturali del Paese e l’assenza di bar e locali notturni, moltiplica l’offerta e la varietà gastronomica locale, declinata in migliaia di ristoranti e trattorie a conduzione familiare. L’ampio uso di ingredienti freschi e biologici, spesso di produzione locale, si traduce in piatti saporiti, ma non piccanti né eccessivamente speziati, gusti insoliti capaci di incuriosire il palato del viaggiatore e di catapultarlo indietro nel tempo, quando non esistevano cibi in scatola, surgelati o preconfezionati.

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Buon appetito ! (vikingandre.com)

Il calendario iraniano è fittissimo di feste, festività e ricorrenze, sia nazionali che locali. E’ difficile trascorrere un periodo in Iran senza assistere a qualche manifestazione di festa o celebrazione religiosa. Una tra le più sentite si svolge a fine Marzo: il Capodanno (Nawrūz), corrispondente all’equinozio di primavera, segna l’inizio del calendario legale iraniano, che segue a sua volta una cadenza luni-solare. Il nostro 2017 corrisponde, a partire da marzo, al 1396 iraniano.

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Verde=Islam, Bianco=Pace, Rosso=Martirio (vikingandre.com)

L’architettura giuspolitica e sociale della Repubblica Islamica dell’Iran è fondata sui principi religiosi del Corano. La Guida Suprema è una figura istituzionale capace di guidare appunto lo Stato grazie alla sua abilità di interpretare il Corano alla luce delle circostanze della sua epoca. Non si tratta di una vera dittatura, in quanto alla base della scelta della Guida Suprema e dei principali organi istituzionali iraniani (Presidente della Repubblica, Parlamento, Consiglio dei Guardiani ecc.) c’è sempre il suffragio universale. I media occidentali sottolineano con insistenza i rapporti diplomatici difficili che l’Iran mantiene con USA, Israele, Arabia Saudita; si focalizzano su alcune consuetudini locali interpretandole come segno di arretratezza culturale e sociale: l’uso obbligatorio del velo per le donne, la censura su certi siti internet ed applicazioni come Facebook e Twitter, l’esistenza di una polizia morale a controllo dei comportamenti pubblici, il divieto del consumo di alcolici. Tutto è interpretabile e soggettivo, nessuno desidera imporre idee o tratteggiare una realtà più rosea di quello che è: ma il consiglio che rivolgo al vero Viaggiatore, quello sensibile alla diversità e rispettoso delle differenze culturali, è di andare di persona in Iran, di parlare con la gente, di farsi un’idea propria del perché di certe situazioni e delle origini culturali di certe consuetudini.

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Ayatollah Ruḥollāh Moṣṭafāvī Mōsavī Khomeynī (vikingandre.com)

La perla nascosta dell’Iran ed uno dei motivi che da solo giustificherebbe un viaggio da queste parti è senza dubbio Isfahan. Personalmente la inserirei nella “top ten” dei luoghi nel mondo che ogni viaggiatore deve visitare almeno una volta nella vita, una sorta di ottava, nona o decima meraviglia del mondo. Ciò che rende unica questa città situata nel cuore del Paese è il suo mix di bellezza, atmosfera e carattere ospitale dei suoi abitanti. “Esfahān nesf-e jahān” cita un proverbio locale, cioè “Isfahan è metà del mondo”, tanto è ricco il suo patrimonio di bellezze architettoniche, monumenti e giardini. Lo scrittore inglese Robert Byron menzionò Isfahan tra “quei rari luoghi, come Atene o Roma, in cui l’umanità trova comune sollievo”. Sono capitato la prima volta a Isfahan in pieno febbraio, ma nonostante l’inverno e l’altitudine intorno ai 1600 metri, l’aria della città era piacevole, fresca, frizzante, ma non fredda, forse anche per la concomitanza della festa di San Valentino che, in barba alle divisioni religiose, anche qui i giovani festeggiano diffondendo nell’aria tanti buoni sentimenti.

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Sheikh Lotfollah Mosque, Isfahan (vikingandre.com)

Durante il giorno è un susseguirsi di piazze stupende bordate di palazzi, moschee e monumenti altrettanto magnifici: dai primi insediamenti nel V-VI secolo a.C. in epoca achemenide ai nostri giorni, la città non smise nei secoli di crescere in bellezza, eleganza e ricchezza culturale, seppur tra alti e bassi (come durante la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein che provocò molti danni oltre ad un flusso di persone che lasciavano le aree di confine per cercare qui rifugio dai combattimenti).

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Meydan Naqsh-e Jahan, Isfahan (vikingandre.com)

La piazza più celebre e quella più abbagliante per la sua maestosità e grandezza è Meydan Naqsh-e Jahan, cioè letteralmente “piazza metà del mondo”: qui è facile trascorrere ore a curiosare nelle botteghe del bazar, ad osservare le raffinate decorazioni in piastrelle azzurre della moschea Masjed-e Emam o quelle in piastrelle color crema della cupola della moschea Masjed-e Cheick Lotfollah, ad ammirare i riflessi del palazzo di Ali Qapou nella grande fontana, a sorseggiare un tè caldo in un localino tipico, a rilassarsi su una panchina guardando l’umanità di bambini, giovani, adulti che passeggia e si gode la vita.

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Sheikh Lotfollah Mosque, Isfahan (vikingandre.com)

Ma è durante le ore serali e notturne che Isfahan svela tutto il suo fascino: quando il lavoro è terminato e gli uffici chiudono, la gente del posto si riversa nelle vie, nelle piazze, nei giardini pubblici per stare insieme, per passeggiare, rilassarsi, socializzare e, di nuovo, godersi la vita. Immergersi in questa atmosfera tranquilla, sicura e molto piacevole mi fa capire quanti anni luce sia lontana dalla realtà l’immagine mentale che in Occidente abbiamo dei “poveri” iraniani, incapaci di vivere la notte senza bar e discoteche, infagottati nei loro burqa. Sciocchezze, anzi complice un aereo in partenza alle 4 di notte, ho potuto sperimentare di persona la vita notturna che scorre come le acque del fiume Zayandeh tra gli stupendi ponti Si-o-se Pol e Khaju,: bambini, anziani, giovani animano gli archi illuminati dei ponti ed i vialetti dei giardini con pic-nic, giochi, chiacchiere, risate… non è raro incontrare qualcuno con la chitarra acustica strimpellare qualche nota e vedere in pochi attimi raggrupparsi giovani ragazzi e ragazze a cantare e battere le mani a ritmo. La gente dell’Iran per me è speciale e a Isfahan ho colto un livello di ospitalità e accoglienza davvero sorprendenti: non è raro essere avvicinati da qualche giovane curiosa, rigorosamente col velo, ma desiderosa di dialogare in inglese, di conoscere, di sapere, di fare amicizia. Qualcosa di impensabile da noi, nelle nostre città… trovarsi alle 2 di notte in un parco cittadino a febbraio, su una panchina illuminata solo dai riflessi della luna sul fiume, a mangiare pistacchi e a chiacchierare di calcio con ragazzi e ragazze locali, ammirati perché avevo visto tante volte con i miei occhi Baresi e Maldini giocare a San Siro…..

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Ritrovo serale al ponte Khaju di Isfahan (vikingandre.com)

L’Iran è il Paese in assoluto che più si discosta dai preconcetti e dalle aspettative di chi non l’ha mai visitato di persona. Gli iraniani sono un popolo aperto, generoso, accogliente, gentile, ospitale e soprattutto molto desideroso di parlare, confrontarsi e spiegare ai visitatori la propria cultura, la propria sensibilità religiosa e la propria vita, le preoccupazioni per il lavoro, per la politica internazionale, per il futuro. Se si avrà la pazienza di ascoltare, spogliandosi di ogni preconcetto, magari davanti ad una tazza fumante di tè nero o ad un dolcetto di mandorle e pistacchi, si potranno scoprire e capire molti aspetti della vita locale che, con sfumature diverse, non sono forse così dissimili da quelli di casa nostra.

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Love is in the air: San Valentino al ponte Si-o-se Pol di Isfahan (vikingandre.com)

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