Viaggiare con la propria famiglia è una delle esperienze che, se ben organizzata a misura dei giovani viaggiatori, maggiormente gratifica genitori e figli. Affinché la vacanza dei sogni non si trasformi in un viaggio da incubo, occorre pianificarla attentamente: in particolare si deve scegliere la destinazione del tour, la sua tipologia (culturale, sportiva, urbana, nella natura, itinerante, balneare ecc.) ed il periodo di effettuazione tenendo ben presente l’età dei bambini, le loro esigenze ed i loro interessi. Il rischio è infatti quello di destabilizzare eccessivamente i ragazzi e di suscitare in loro reazioni di totale rifiuto che raggiungono l’apice quando viene proferita la terribile frase “voglio tornare a casaaaaa!!!”: quello è il punto che sancisce il fallimento del viaggio in famiglia e che suscita il rimorso nei genitori per non aver preso al volo quell’occasione di 15 giorni alla pensione Bertozzi di Viserbella, pensione completa e ombrellone con sdraio inclusi, anziché sobbarcarsi la spesa e la fatica di attraversare mezzo mondo per vedere i propri figli e sé stessi stressati e scontenti.
Basandomi sulla mia esperienza diretta di travel designer specializzato in viaggi in Oriente e contemporaneamente di padre di 3 ragazzine di età compresa tra i 9 ed i 13 anni, vorrei spiegare qui le criticità che ho dovuto personalmente affrontare quando ho intrapreso un viaggio estivo nel Sud Est Asiatico (Singapore, Laos e Cambogia) con la mia famiglia.

Il volo intercontinentale dura troppe ore. Dall’aeroporto di Milano Malpensa a quello di Singapore Changi sono previste circa 12 ore di volo, cioè mezza giornata da trascorrere nello spazio angusto di un aeromobile a cui vanno sommate 2/3 ore di presentazione in anticipo ai banchi del check-in. L’aereo non ha ancora chiuso il portellone e già le ragazze cominciano a maneggiare i comandi del monitor interattivo di cui Singapore Airlines dota tutti i posti. Tra decine di film, cartoni animati, documentari, giochi elettronici, video musicali, serie televisive, canzoni, immagini del volo da ogni angolazione, mappe digitali e altre infinite informazioni, le 12 ore “volano” via letteralmente. Ormai tutte le compagnie asiatiche (da Thai Airways a Cathay Pacific fino a Singapore Airlines) sono ai vertici delle classifiche sull’aviazione civile per comodità, cortesia del personale, modernità ed intrattenimento a bordo. Anche se il cibo servito non è mai di qualità eccelsa nessuna figlia è morta di fame e la fatica maggiore è togliere loro dalle mani il joystick e spegnere lo schermino per farle dormire un po’ prima di atterrare al mattino a Singapore. Ogni mezz’ora il mio stato semi-catalettico viene destato da Aurora che dandomi di gomito mi informa sulla rotta: “Daddy, siamo sull’Afghanistan; daddy, abbiamo passato l’India; daddy, posso alzare la tenda del finestrino (cioè l’oscurante) per vedere se ci sono i pirati nel mare della Malesia???”.

Le città in Asia sono megalopoli inquinate, trafficate e pericolose. Le porte automatiche si aprono e ci troviamo nel salone degli arrivi dell’aeroporto di Singapore Changi dove una fila di taxi ci attende per condurci in città. Di solito c’è la fila di gente che attende un taxi, qui c’è una fila di taxi che attende noi. Una gentile signora ci fa accomodare nel suo taxi e dopo mezz’ora di autostrade, tunnel e cavalcavia ci sembra di essere giunti in una downtown americana: l’orizzonte è un susseguirsi di grattacieli, vialoni a 6 corsie, altissimi alberghi con i vetri a specchio che inghiottono enormi centri commerciali, i volti delle persone richiamano i lineamenti asiatici, ma i vestiti sono in stile occidentale e l’idioma parlato e visibile sulle insegne è sempre l’inglese. A differenza delle downtown americane, però, è tutto lindo, ordinato, efficiente a livelli che definirei svizzeri. Durante il soggiorno nella città-Stato di Singapore prendiamo la funicolare per Sentosa, un’isola trasformata in parco dei divertimenti, ceniamo lungo il fiume a Clarke Quay e passeggiamo intorno a tutta la Marina Bay, ammiriamo i giochi d’acqua dal battello sotto l’imponente albergo Marina Sands Bay e assistiamo alla costruzione delle tribune lungo un tratto di strada che avrebbe da lì a poco ospitato il gran premio di Formula 1. Grazie ad una capillare ed efficiente rete pubblica di bus e metropolitana (l’isola ha una superficie ridotta e l’uso dell’auto privata è disincentivato per non ingolfare le strade) non ci facciamo mancare una camminata lungo l’arteria commerciale di Orchard Road, con le sue infinite vetrine e opportunità di shopping e lungo i vialetti del parco “Gardens at the Bay”, dove è piacevole fare due passi la sera ammirando enormi alberi artificiali (alti fino a 50 metri) tutti illuminati e non dissimili al celebre “albero della vita” dell’Expo milanese del 2015. E’ facile intuire che, in un ambiente ovattato e opulento come quello di Singapore, il pericolo maggiore sia rappresentato dal rischio di fondere la carta di credito per i prezzi non esattamente bassi oppure di essere assordato dal motore di una Lamborghini che alza i giri del turbo in attesa del verde al semaforo.

Le differenze culturali tra Europa ed Asia sono troppo ampie e scioccanti. Mentre le ragazze si godono un bel bagno in piscina sul tetto dell’albergo, individuo sulla mappa “Little India”, il quartiere indiano, la nostra successiva tappa del soggiorno a “Singapura”: l’origine del nome risale al sanscrito “singha” = leone e “pura” = città ed evidenzia le radici indiane della “Lion City”. Little India è un assaggio (non troppo piccante) della vera big India, grazie ai suoi profumi intensi, ai suoi colori brillanti, ai sapori dei suoi ristoranti, ai numerosi negozietti traboccanti di merci, al vivace mescolìo di umanità varia che brulica nelle sue strade. Nel tempio Sri Veeramakaliamman di Little India colgo un lampo di sorpresa negli occhi delle mie ragazze: i piedi nudi, i colpi ritmati sui tamburi, le preghiere quasi urlate dei bramini, la gente addossata l’una all’altra che recita la “puja” e offre fiori e bocconcini di cibo alle divinità induiste. Questa escursione fuori dall’usuale e dalle proprie abitudini culturali alimenta la loro curiosità e mette in moto le rotelline dei loro pensieri. E mentre una gentile signorina originaria del Tamil Nadu colora le loro mani con arzigogolati motivi all’henné, mi rendo conto che il fascino di Singapore ed il ricordo che le ragazze conserveranno più o meno inconsciamente risiede proprio in questo: 5 milioni e mezzo di abitanti, una mescolanza di lingue (inglese, malese, mandarino, tamil…), una miscela di tratti somatici e colori della pelle (cinesi, malesi, europei, indiani…), una pacifica convivenza tra cristiani, musulmani, buddisti, taoisti e induisti, una piccola società sì ricca e benestante, ma che è arrivata ad esserlo anche grazie al proprio modello multietnico e multiculturale, improntato al rispetto delle regole e del fragile ambiente in cui vive.

Il clima estivo nel Sud Est Asiatico, caldissimo ed umidissimo, è insopportabile. Sorvolando il Laos, dall’oblò rigato da gocce d’acqua scorgo a fatica, tra i nuvoloni plumbei carichi di pioggia, le foreste solcate da fiumi gonfi e marroni. Mi assale qualche dubbio: vuoi vedere che gli stravolgimenti climatici sono arrivati anche qui e che al posto di qualche breve temporale pomeridiano il viaggio si svolgerà tutto sotto la pioggia come in quei film che raccontano le vicende dei soldati americani in Vietnam??? Atterriamo a Luang Prabang e la pista dell’aeroporto è tutta bagnata, ma non piove più. Puntuale il monsone aveva scaricato poco prima il suo bel temporale pomeridiano e nel tempo in cui abbiamo raggiunto (rigorosamente a piedi, non siamo più a Singapore con i comodi “fingers” e l’aria condizionata di Changi!) l’edificio dell’immigration dalla scaletta del volo, l’asfalto si è asciugato, avvolgendoci in una nuvoletta di vapore e sudore. Erika mi guarda ed esclama “mmmh, qui l’aria che si respira pesa di più!”. Esatto ! Le temperature in estate da queste parti raggiungono i 30/35 gradi, ma sono i tassi di umidità che danno maggiormente fastidio: si è costantemente sudati ed è importante bere frequentemente e coprirsi quando si passa dall’esterno a luoghi con l’aria condizionata (tenuta in genere a livelli artici). Il monsone, con la sua pioggia quotidiana, breve ed intensa, è sempre benvenuto qui in estate: abbatte la calura, disseta i campi, fa sbocciare stupendi fiori tropicali che soffondono l’aria di intensi profumi. E sì, quest’aria è più pesante della nostra, ma si respira bene ugualmente.
Luang Prabang è adagiata in una piccola valle alla confluenza di due fiumi, il placido Mekong e l’impetuoso Nam Khan: saliamo in cima alla collinetta Phousi, nel centro della cittadina e qui dall’alto si vedono bene i due corsi d’acqua che Tiziano Terzani evoca nel suo libro “Un indovino mi disse” quando riflette sulla vita che scorre come le acque fluviali. Oggi la corrente corre veloce, gonfia i fiumi e alimenta ruscelli, canali e risaie. Non lontano da Luang Prabang le acque fresche delle cascate di Kuang Si fragorosamente si infrangono sulle rocce, dando vita ad una grande nuvola di goccioline che i raggi del sole attraversano frammentandosi nei colori dell’arcobaleno. In questo ambiente spettacolare, ci tuffiamo nelle piscine naturali dalle acque turchesi: ok, fa caldo, ma il divertimento è totale, non è da tutti i giorni nuotare sotto una cascata ! Abbiamo scelto tutti gli alberghi del viaggio dotati di piscina in modo che al ritorno accaldati dalle visite ci fosse sempre in programma un bel bagno rinfrescante e ad aspettarci un bel bicchierone di lime-soda con un pizzico di zucchero e sale. Ed in bassa stagione costa tutto la metà…

Nel Sud Est Asiatico mettono il ghiaccio in tutte le bevande, il cibo è troppo speziato, le condizioni igieniche lasciano a desiderare ed il rischio di contrarre malattie e virus intestinali è troppo elevato. Il ghiaccio nella birra non si mette. Punto. Anche se fa caldo e se dopo 5 minuti che si trova nel bicchiere diventa un brodino tiepido. In Laos ed in Cambogia questa cosa non vogliono capirla, al massimo estraggono il boccale direttamente dal freezer, ma una bella cucchiaiata di ghiaccio non la negano mai. Questo dilemma etico non scalfisce le mie figlie, che sono ancora piccole e non bevono birra, disinteressandosi quindi ai miei tentativi di tenerla fresca senza annacquarla. Quasi dappertutto il ghiaccio viene prodotto con l’acqua delle bottiglie sigillate o comunque con acqua sanificata, il rischio di mischiare la propria bevanda con acqua del rubinetto di dubbia provenienza non è elevatissimo, piuttosto è da evitare la tentazione di scolarsi in un colpo una intera lattina di Coca Cola gelida dopo essersi arrampicati per 2 ore sulle rocce assolate dei templi di Angkor: più che il ghiaccio, infatti, può far danni soprattutto la temperatura troppo bassa del liquido che si ingerisce. La frutta che si trova qui è 10 volte più gustosa di quella che, colta acerba, matura poi nei container prima di finire sui banchi dei nostri supermercati: quindi basta un assaggio di mango, banane o frutti della passione locali e le ragazze si dimenticano dell’esistenza di Coca Cola e Fanta preferendo un’infinità di succhi, spremute e centrifughe varie. Per combattere l’inquinamento da bottigliette di plastica, molti alberghi e resort regalano agli ospiti delle borracce in metallo con loghi, disegni e colori vivaci, da riempire con acqua fresca purificata presa da appositi boccioni: frutta esotica, acqua ecologica, chilometro zero… ma vuoi vedere che in questo viaggio le fanciulle imparano anche qualcosa di utile sulla biodiversità e l’eco-sostenibilità? Lavarsi i denti con l’acqua di una bottiglietta non solo riduce il rischio di contrarre un virus intestinale, ma serve anche a non dare per scontato che basta girare un rubinetto e si ha tutta l’acqua potabile che si desidera, per tutto il tempo che si desidera. Il buon senso ci fa muovere con una bella dotazione di Amuchina in gel, fazzoletti disinfettanti e fermenti lattici da ingerire ogni mattina, un attacco di dissenteria a queste latitudini può sempre capitare, ma siamo fortunati e torniamo tutti e 5 con i nostri chiletti al loro posto.

Anche quando organizzo viaggi in Laos e Cambogia per i miei clienti, consiglio sempre di lasciare liberi i pasti, tanto è varia e di qualità l’offerta gastronomica locale. In una regione baciata dal sole e irrorata di umidità tutto l’anno, la disponibilità di prodotti agricoli freschi è enorme e spazia dal riso alle verdure, dalla frutta alle spezie, senza dimenticare pollame e dolci. E’ impossibile non trovare qualcosa che piace al palato dei giovani viaggiatori: l’uso di spezie completamente avulse dai nostri gusti è raro qui, le salse piccanti vengono servite a parte se le si desidera e quasi dappertutto si trovano anche piatti di origine occidentale (patatine, i gloriosi “spagetti bolognaise”, la pizza) o cinese (involtini primavera, riso saltato, noodles) che in genere i bambini non disdegnano assaggiare. L’eredità coloniale francese ha poi influito molto sulla gastronomia locale e ha ammorbidito il sapore troppo autoctono di molti piatti, lasciando anche una bella eredità di forni e panetterie che con la loro produzione di croissants, crêpes e baguettes forniscono gli ingredienti base per squisite merende. E’ con l’acquolina in bocca che condivido la “top ten” dei locali e ristoranti preferiti dalla nostra “family on tour”. Papà: Level33 di Singapore e Siem Reap Brew Pub di Siem Reap; mamma: The Belle Rive Restaurant di Luang Prabang e Jaan Bai Restaurant di Battambang; Marta: The Tangor di Luang Prabang e FCC Restaurant di Phnom Penh; Erika: Coconut Garden di Luang Prabang e Sokkakh River di Siem Reap; Aurora: Manda de Laos di Luang Prabang e Tuk Tuk Pizza di Siem Reap. Quest’ultimo non è un vero ristorante, ma ha entusiasmato tutti: alle spalle del National Museum di Angkor, c’è un anonimo marciapiede arredato con piccoli tavoli e seggioline in plastica colorata che sembrano a misura di bambola e dal retro di un tuk-tuk (il tipico Ape Piaggio solitamente utilizzato come taxi) trasformato in forno a legna appaiono fragranti pizze che nulla hanno da invidiare a quelle nostrane. A qualsiasi latitudine, una buona fetta di pizza è la gioia di tutti, grandi e soprattutto piccoli !

Nel Sud Est Asiatico è pieno di animali pericolosi, di insetti velenosi e di zanzare infette. A Vientiane, la capitale del Laos, vivono alcuni amici italiani e a cena ci raccontano come si svolge la loro vita quotidiana da queste parti. Avere la possibilità di ascoltare qualcuno che abita stabilmente sul posto, ma che è originario del proprio Paese è un’occasione imperdibile per i giovani viaggiatori di scoprire le diverse abitudini, consuetudini, mentalità e interpretazioni della vita che ha la gente del posto rispetto a chi viene dall’Italia. Francesco e Mauro sono fonti inesauribili di aneddoti e con la loro simpatia conquistano immediatamente le ragazze, specialmente quando l’argomento scivola sul tema degli insetti a tavola. Va da sé che nei territori tropicali caldo umidi del Sud Est Asiatico gli insetti trovino l’habitat ideale per diffondersi e, grazie alla loro abbondanza, la popolazione locale non disdegna catturarne qualcuno per trasformarli in uno spuntino veloce: grilli, cavallette, larve, ragni ogni tanto si trovano suddivisi in ciotole su qualche bancarella del mercato, magari conditi con una salsina dopo essere stati rigorosamente fritti. Come insegna Homer Simpson, qualsiasi cosa dopo una bella frittura diventa commestibile e anche gli insetti locali al palato hanno un sapore quasi identico tra loro, sanno fondamentalmente di fritto. L’olio per friggere è importato dalla Tailandia e costa, quindi viene utilizzato più e più volte: magari, come si sente dire in giro, gli insetti diventeranno il pasto del futuro, ma per ora siamo tutti concordi nel lasciare che resti il pasto della lucertolina locale, il geco.

Ogni abitazione, ristorante, albergo, negozio in Laos ha il suo geco: innocue lucertole un po’ più pingui e pigre (sono laotiane, d’altronde…) rispetto alle nostre, dotate di occhi grandi e di particolari zampette capaci di attaccarsi ovunque, che di notte si posizionano in genere sul soffitto e intorno alle luci per banchettare con gli insetti che svolazzano appunto intorno alle lampade. La forma dei gechi è unica e da queste parti si dice che il loro inconfondibile versetto porti fortuna se la bestiolina lo ripete 7 volte: all’inizio le ragazze erano un po’ intimorite dalla costante presenza sopra le loro teste di queste lucertole dai grandi occhi (tra l’altro ben 350 volte più sensibili degli occhi umani), ma col passare dei giorni la loro discreta presenza passa sempre più inosservata e anzi, quando entrano in un posto nuovo, ne scrutano la volta alla ricerca dell’angolo del geco padrone di casa. Una grande virtù dei gechi è la loro dieta a base di zanzare, falene, mosche, scarafaggi, scorpioni: un motivo in più per lasciarli vagare indisturbati sul soffitto della propria camera d’albergo è proprio la circostanza che, se per caso entra un insetto, il geco se lo mangia. Oltre a questo rimedio naturale, nei luoghi più abitati e meno remoti del Sud Est Asiatico la zanzara viene combattuta con oli essenziali profumati molto efficaci e gradevoli: le ragazzine ogni sera prima di uscire si spruzzano qualche goccia “di profumo” e gli insetti se ne stanno alla larga. Certo, qui è facile: la zanzara più diffusa è un insettino minuscolo che, anche se pizzica, provoca un ponfo che dopo 10 minuti già scompare e soprattutto ha l’abitudine di palesarsi solo di sera, dopo il tramonto. A Battambang assistiamo al tramonto in piena campagna, sul cosiddetto “trenino di bambù”, cioè una pedana di strisce di bambù sospinta da un piccolo motore lungo i binari di una vecchia ferrovia in disuso: ci sono insetti, ci pizzica qualche zanzara, ma lo spettacolo del sole che si nasconde dietro l’orizzonte dopo aver infiammato il cielo di rosso, rosa e viola fa scordare qualsiasi puntura. Forse in qualche remota foresta di confine con il Vietnam o con la Tailandia ci sono zanzare tigre potenziali portatrici di malaria: ma chi porta i bambini a fare trekking nel fango della giungla, tra le tribù che vivono in villaggi senza acqua corrente ed elettricità, situati a 500 km dall’ultimo centro abitato?

Servono pochi passi a piedi dalle cascate di Kuang Si, presso Luang Prabang, per imbattersi in una moltitudine di insetti totalmente innocui e di grande bellezza: le farfalle del “Butterfly Park”. In un’area naturale ricca di vegetazione e attraversata dalle acque che scendono dalle cascate, Olaf e Ineke, due simpatici olandesi trapiantati in Asia, hanno dato vita ad un parco dove svariate specie di farfalle colorate sono libere di volare tra piante e fiori e di essere osservate da vicino. Olaf ha creato anche un laghetto dove immergere i piedi e farseli “mordicchiare” e massaggiare da decine di pesciolini: il pericolo maggiore per le ragazze qui è non riuscire più ad andarsene, tanto è gradevole e rilassante il luogo! Identico pericolo in cui incorriamo, sempre nei pressi di Luang Prabang, quando facciamo la conoscenza con gli elefanti dell’Elephant Village Sanctuary & Resort. Originariamente il Laos era denominato “Lan Xang”, cioè “la terra di un milione di elefanti”, tanto era diffuso questo pachiderma; oggi ne restano molti meno esemplari, circa un migliaio, e centri come l’Elephant Village si occupano della cura e della sopravvivenza di questi animali, in un ambiente a loro naturale, lontano da lavori pesanti a cui spesso sono sottoposti da giovani, in un progetto che coinvolge in modo sostenibile sia la comunità locale che i visitatori. L’elefante asiatico è più piccolo e docile di quello africano, ma sufficientemente forte da essere sfruttato nelle foreste per il trasporto di legname; se ben curato e nutrito può vivere oltre i 50 anni, i più longevi arrivano anche a 70/80 anni di età. Il personale del campo conquista subito le ragazze con la gentilezza e la dolcezza che sembrano innati in tutti i laotiani: la nostra guida, in un inglese semplice e comprensibile, spiega i comandi vocali di base per guidare gli elefanti e poi ci conduce a dare loro una ricca colazione a base di banane. Accarezzare la proboscide di un elefante, toccare le loro orecchie giganti e farsi risucchiare le banane dalle proprie mani (le mangiano con tutta la buccia!) è un’esperienza unica ed entusiasmante sia per i piccoli che per i grandi, superata solamente dalla passeggiata sul loro dorso: abolite da alcuni anni le fastidiose selle in legno (“howdah”), si sale direttamente sul dorso dell’animale (ciascuno con il proprio “mahout”, il suo fedele custode) e si percorre un breve tratto di foresta a cavalcioni di queste splendide creature. Si attraversa anche il fiume dove gli elefanti non mancano di immergersi e di fare il bagno spruzzando con la proboscide i propri “ospiti”, per il divertimento sia degli animali che dei visitatori e soprattutto dei mahout che si godono la scena. E’ dura per le ragazze allontanarsi da Maxi, il vivace e goloso cucciolo ultimo nato (2013) e da Mae Kham Koun, l’elefante più grande del campo, nata nel 1971, docile e intelligente, che suscita tenerezza anche per la sua zampa ferita da un ordigno esploso quando lavorava nell’industria del legname.

Gli orrori della guerra, tuttora visibili in Indocina, non sono adatti ai bambini e rovinano la serenità della vacanza. UXO è una sigla che significa “un-exploded ordinance” e fortunatamente negli ultimi tempi è sempre più raro nel Sud Est Asiatico scorgere cartelli che riportano queste 3 lettere inquietanti: ricordano che nel terreno dove si sta camminando esistono ordigni non esplosi. Durante la guerra del Vietnam, il presidente americano Kennedy autorizzò le prime missioni segrete di bombardamento sul suolo laotiano inizialmente con lo scopo di contenere le azioni dei ribelli comunisti locali contro la monarchia: tra il 1964 ed il 1973, i bombardieri statunitensi scaricarono sul Laos circa 2,5 milioni di tonnellate (due virgola cinque milioni!! di tonnellate!!) di ordigni, con l’obiettivo di interrompere i rifornimenti che avvenivano tra il Vietnam del Nord ed i ribelli Vietcong nel Vietnam del Sud lungo il cosiddetto “sentiero di Ho Chi Minh”, una sorta di corridoio situato sul confine tra Laos e Vietnam. I B52 americani durante le loro 580.000 missioni dal Siam (Tailandia) al Vietnam non mancavano di sganciare sul Laos e sulla Cambogia (anch’essa sospettata di favorire i ribelli comunisti del Vietnam meridionale) soprattutto le famigerate “bombe a grappolo”: questi ordigni, di forma sferica e grandi come palline da tennis, erano contenute in una bomba guscio che prima di toccare terra si apriva rilasciando il suo contenuto di decine di bombe più piccole che assomigliavano ad un grappolo d’uva prima di esplodere sul terreno. Il 30% delle “cluster bombs” si conficcò nel terreno morbido o fangoso delle foreste e delle campagne laotiane/cambogiane senza esplodere: l’elefante Mae Kham Koun, impegnata a trasportare legname nella foresta, insieme a centinaia di contadini, cercatori di rottami e soprattutto bambini intenti a giocare all’aria aperta sono rimasti vittima di questi ordigni inesplosi nel corso degli ultimi 45 anni.
La probabilità per un viaggiatore che oggi visita il Laos e la Cambogia di imbattersi in terreni infestati da UXO è estremamente remota e, a meno che decida di cercarle apposta, le testimonianze del periodo bellico sono poco visibili. A mio parere, senza necessità di rovinarsi le vacanze con immagini crude e violente, un’infarinatura sugli eventi (abbastanza recenti, parliamo di circa 4 decadi fa) che hanno profondamente inciso sulla storia di questa porzione di mondo è fondamentale per comprendere molti aspetti che contraddistinguono il Laos e la Cambogia attuali. E questa infarinatura ritengo sia utile sia agli adulti che ai più giovani: Storia e Geografia ci forniscono sempre le coordinate culturali e gli strumenti interpretativi giusti per viaggiare, nel tempo e nello spazio, con cognizione di causa. Non è complicatissimo intraprendere una conversazione con i locali (soprattutto con le guide) che tratti di argomenti sensibili come la guerra, il comunismo, i campi profughi: tutti hanno esperienze di quel periodo storico, dirette o tramite i racconti di qualche parente prossimo e la visione della vita che hanno qui (la guerra c’è stata, è finita, la pagina della storia è stata girata e ora si va avanti) consente di poter interloquire con molta schiettezza su argomenti che altrove sarebbero tabù. E’ un’occasione unica per le giovani menti poter ascoltare aneddoti e racconti direttamente dalla voce dei protagonisti, non è poi così diverso dall’ascoltare i nonni che condividono con i nipoti la propria saggezza ed i propri ricordi: come spesso accade, certi argomenti che ci regala il passato sono utili anche per interpretare il presente. C’è poi una visita che concretamente può nutrire le coscienze dei più giovani senza ovviamente traumatizzarli: la C.O.P.E. (The Cooperative Orthotic and Prosthetic Enterprise) in Laos è un’organizzazione no-profit che garantisce assistenza, riabilitazione e fornitura di protesi alle persone con disabilità motorie conseguenza di incidenti con le bombe inesplose UXO. Il centro visitatori di Vientiane è una fonte preziosa di informazioni, video e testimonianze: un giro da queste parti, oltre ad essere molto educativo, è spesso anche emozionante e commovente.
Laos e Cambogia sono Paesi molto poveri e non ha senso andare in vacanza con i bambini in mezzo alla povertà. Gran parte dei fruitori dell’assistenza fornita dalla COPE sono persone “povere”, cioè non in grado di sostenere autonomamente le spese per le cure e le protesi. In effetti, dal punto di vista meramente economico, Laos e Cambogia si posizionano piuttosto indietro nelle classifiche mondiali relative a PIL, reddito pro-capite, capacità d’acquisto. Il medico svizzero Dr Beat Richner ha creato una rete di ospedali gratuiti Kantha Bopha Children’s Hospitals che negli ultimi 40 anni ha fornito assistenza pediatrica di alta qualità completamente gratuita ai bambini cambogiani e alle loro famiglie: il sistema sanitario locale è infatti carente, le infrastrutture statali, la spesa sociale ed i servizi pubblici anche i più basilari spesso qui sono insufficienti e di livello molto basso. Uno potrebbe chiedersi che gusto ci sia a trascorrere le vacanze con le proprie figlie in luoghi afflitti dalla povertà. In realtà, a differenza di certi Paesi africani, la gente qui non muore di fame, raramente si vedono in giro bambini denutriti o in condizioni traumatiche, la terra è fertile e generosa, il clima caldo umido tropicale favorisce l’agricoltura e finché gli stravolgimenti climatici non distruggeranno l’ecosistema locale è infrequente incappare in vere e proprie carestie. La cosiddetta povertà riguarda prevalentemente il possesso di cose e di denaro. Da questo punto di vista, gran parte dei laotiani e dei cambogiani è povero: non possiede tanto denaro, tanti oggetti, tante scarpe, tanti capi di abbigliamento, tanti giocattoli, tanti libri, tante matite, tante case, auto, moto o biciclette…. Ciò che hanno è poco e lo riutilizzano un’infinità di volte, magari aggiustandolo spesso, finché l’oggetto non si disintegra letteralmente. Per chi vive in una società come la nostra, improntata all’economia di consumo, alla compravendita finalizzata al consumo, alla produzione di beni destinati al consumo, alla creazione di bisogni fittizi da soddisfare con il consumo, immergersi in una società dove gran parte delle persone consumano solo ciò di cui ha bisogno (e spesso anche meno) può essere estremamente educativo. Siem Reap ed i suoi templi si possono raggiungere via strada da Phnom Penh e Bangkok oppure in aereo da Bangkok, Singapore, Hong Kong ecc. C’è anche una terza via, quella fluviale e lacustre, che partendo da Battambang risale il fiume Sangke fino al lago Tonlé Sap e poi raggiunge il molo ai piedi della collina di Phnom Krom, situato ad una quindicina di km da Siem Reap.
Seppure più lunga e disagevole delle altre, questa terza via è la mia preferita: il percorso fluviale consente di vedere con i propri occhi la semplicità delle case, dei villaggi, della vita rurale in Cambogia lontana dai centri turistici e dai loro alberghi, negozi e ristoranti. Qui i bambini hanno UN vestito e UN paio di infradito in plastica, vivono in palafitte di pochi metri quadrati con una lamiera per tetto ed il fiume come wc, vasca da bagno, lavatrice e lavapiatti; qui le persone vivono di pesca e di agricoltura: chi pesca vende il pesce a chi vende loro le verdure dell’orto, in una sorta di fragile mercato locale di sussistenza. Il lusso è rappresentato da un piccolo televisore o da una radiolina gracchiante a batterie. La nostra imbarcazione scivola rumorosamente tra mangrovie, canali bordati da palme da cocco, nasse che fluttuano nella corrente cercando di intercettare qualche pesce guizzante nelle acque scure, impalcature in bambù per la pesca con le reti quadrate, palafitte in legno e lamiera aggrappate alle rive del fiume. Possiamo definire “povertà” ciò che scorre davanti ai nostri occhi? Probabilmente sì, ma nelle espressioni del viso delle ragazze, nei loro occhi, non scorgo shock, ma una presa di coscienza: siamo fortunate a vivere nel comfort e in una casa con un tetto e dei muri, dobbiamo essere felici di avere il piatto pieno ad ogni pasto, non lamentiamoci dei compiti e dei lavoretti da svolgere quando i nostri coetanei qui si alzano all’alba per aiutare i genitori nei campi o nella pesca per poi andare a scuola e studiare la sera a lume di candela…. Tuttora, quando qualcuna si lascia andare ad un capriccio a casa, le altre le ricordano di come vivevano in semplicità i ragazzini cambogiani che studiavano musica con padre Mark alla scuola galleggiante di Prek Toal oppure di come aiutavano i genitori le ragazzine di Battambang che per guadagnare qualche moneta extra vendevano braccialetti e animaletti di fili d’erba fatti a mano (poi alla fine sono diventate amiche e gliene hanno regalati un mucchio) o infine la concentrazione dei bimbi del villaggio Hmong vicino a Kuang Si mentre giocavano serissimi a spostare dei piccoli sassi su una pietra più grande. Ciò che colpisce, in queste situazioni di semplicità e spesso povertà, sono la serenità ed il sorriso che non manca mai sul volto di giovani e bambini locali. Come quello della bambina, curioso e timido, che in sella al motorino con il suo papà affianca il nostro tuk-tuk ad un semaforo di Siem Reap: nessuno delle mie figlie dimenticherà l’espressione dolcissima di questa bimbetta di pochi anni quando le abbiamo allungato un piccolo peluche in regalo. Apprezzare ciò che si ha, dare il giusto valore alle cose, non temere di condividere con gli altri: questa è la ricchezza che ci dona un viaggio in Paesi (apparentemente) poveri come il Laos e la Cambogia.

Non esiste una formula chimica infallibile che garantisca il successo di un viaggio, specialmente se svolto in famiglia con protagonisti in giovane età, specialmente se effettuato in aree del mondo lontane e non usuali. Un buon viaggio è sempre il risultato di una miscela di fattori sapientemente dosati: esperienza, fortuna, abitudine a viaggiare, educazione, organizzazione flessibile, equilibrata e capace di assorbire gli inevitabili imprevisti, attenzione agli interessi e alle esigenze di tutti e… una fornitura massiccia di fermenti lattici! Se questi ingredienti vengono preparati e amalgamati con cura, l’esperienza di viaggio non può che risultare piacevolmente gustosa e ricca di tanti bellissimi ricordi da assaporare insieme per tutta la vita.

A big “thank you” to Francesco, Mauro P, Andrea, Mauro B, Sombath, Filiberto and all our friends in Asia