E’ appena terminata l’edizione 2013/2014 della Premier League inglese di calcio. Il Manchester City ha vinto il titolo in volata e mentre in tv scorrono le immagini dei festeggiamenti mi rendo conto che, tra le mie passioni, il football inglese sta superando il calcio italiano. Tra le migliaia di magliette azzurre dei sostenitori festanti del City appare uno striscione: “Fight to the end”. Qui giocano tutti alla morte fino all’ultimo istante, non molla nessuno, anche se non c’è più in palio un piazzamento od un obiettivo, le squadre inglesi giocano sempre con il cuore fino a quando l’arbitro non soffia per la terza volta nel fischietto. La chiamano genericamente “cultura sportiva” e come tutti i fenomeni culturali ha radici lontane nel tempo che hanno fatto presa in un terreno ben preparato. Un terreno che una volta era infestato di gramigna chiamata hooligans e stadi vetusti, ma che oggi è fertile e verde come l’erba magnifica dei prati inglesi. Intervistano Yaya Touré, il monumentale gigantesco mostruoso centrocampista dei Citizens: nell’euforia della vittoria, dopo aver appena alzato la coppa, la prima frase che gli esce dalla bocca è “congratulazioni al Liverpool”. I Reds si sono giocati fino all’ultimo le chance di vincere la Premier, ma sono scivolati sul più bello dando strada ai vicini rivali di Manchester. Intervistano Brendan Rodgers, l’allenatore degli scousers: i tifosi del Liverpool hanno pregustato una vittoria in Premier dopo un quarto di secolo di astinenza, ma sono rimasti a bocca asciutta e invece di spaccare tutto dalla rabbia, insultare tutti e scappare via dallo stadio (come sarebbe successo alle nostre latitudini), sono ancora lì tutti ai loro posti ad Anfield Road dopo 20 minuti dal termine del match, in piedi, a cantare un sempre commovente “You’ll never walk alone” a squarciagola, mentre i giocatori ringraziano e salutano commossi tenendo in braccio i loro bimbi. Sanno di avere dato tutto. Lo sa anche Rodgers, che non manca di ringraziare la gente di Liverpool per il supporto ed i rivali del City per la splendida cavalcata. “Fair Play” non per niente è l’unione di due parole inglesi. In italiano non esiste un corrispettivo letterale. Gioco onesto ? Gioco leale ? Simili, ma non proprio sinonimi. Fair Play è quando all’88° minuto di Man City-West Ham il centrocampista dei londinesi Mark Noble, cuore degli Hammers e cresciuto nel vivaio dell’Academy of Football, va ancora in pressing sugli avversari, si scambia un paio di calcioni con il Kun Aguero e lotta su ogni pallone fino all’ultimo minuto. In Italia sarebbe inconcepibile. Il West Ham infatti è ben sicuro della sua salvezza e non ha altre velleità. Ma non in Inghilterra, dove c’è l’onore da tenere alto, dove non si falsano i finali di campionato pensando già alla vacanza in Sardegna o a Miami, dove tremila tifosi di Londra attraversano tutta l’Inghilterra per vedere una partita perché sanno che sarà una partita vera. All’Etihad Stadium ci sono anche stato ed in effetti solo il fatto di godersi un match di football in un salottino del genere vale il viaggio a Manchester. Ottima vista, seggiolini comodi, spazio per le gambe, steward premurosi, mezzi pubblici a breve distanza, megastore, bagni puliti e una bella scelta di ristoranti e punti di ristoro. La gente canta, sostiene, tifa, ma sempre in modo civile: chi sgarra viene accompagnato fuori all’istante. Sono stato a vedere Arsenal-Chelsea anni fa al vecchio Highbury ed un tipo con la k-way dei Blues si era seduto in tribuna tra i tifosi dei Gunners: due minuti ed un steward l’ha invitato a lasciare la tribuna, perché i tifosi ospiti devono stare solo nei posti a loro riservati. Esagerato ? Non so, ma lassù lo stadio è un posto sicuro a misura di famiglie, mentre quaggiù tramortiscono la passione per il gioco a colpi di burocrazia, tessere dei tifosi, perquisizioni e telecamere, ma gran parte degli stadi resta un posto inadatto alle famiglie, scomodo e insicuro. Ho portato la famiglia a vedere West Ham United-West Bromwich Albion all’Upton Park di Londra e le bambine sono uscite cantando “Come on you Irons !”, ho portato la famiglia a vedere Atalanta-Verona a Bergamo e le bambine sono uscite ripetendo (ridendo) “Raimondi, zio cane, sei lento, sei vecchio !!!”. Allora per chi batte il cuore ? Per un Paese dove la cultura sportiva si traduce in lungaggini burocratiche, combine, stadi scomodi, calciatori-teatranti che rotolano a terra come colpiti da un meteorite al primo buffetto, pubblico scarso e spesso violento oppure per un Paese dove se un giocatore fa scena i suoi stessi supporter lo riprendono severamente (“cheat cheat cheat!!”), dove Paolo Di Canio ferma un’azione d’attacco della propria squadra (il West Ham), impedisce a se stesso di segnare un goal praticamente sicuro perché il portiere avversario (dell’Everton) si è infortunato e diventa automaticamente un idolo ?!? In Italia capita che un giocatore avvisi l’arbitro magari di una rimessa laterale invertita, ma immaginiamoci un gesto alla Di Canio… sarebbe linciato dai suoi stessi tifosi, deriso dagli avversari e silurato dai suoi dirigenti, ci scommetto. Forse sono troppo anglofilo per valutare con oggettività questo argomento, ma più ci penso e più il football mi affascina ed il calcio mi intristisce. Passeggio per Siem Reap, in Cambogia. E’ sera e tutti, locali e stranieri, si trovano in “pub street” per bere qualcosa e divertirsi. Noto un maxischermo in un bar semi vuoto: proiettano la partita di campionato Juventus-Chievo. Pochi se la filano e dopo una pinta di birra anch’io me ne vado. Due isolati più in là noto un assembramento di un centinaio di persone, tra cambogiani e stranieri, gran vociare, grandi “uuuuhh” e “yeahhh”. Mi avvicino e stanno trasmettendo Sheffield United contro Nottingham Forest. Il quinto turno di FA Cup attira di più della capolista di serie A !! Nel mega mercato asiatico il calcio è dietro alla Premier, alla Liga, alla Bundesliga e forse se la gioca con la Ligue 1 francese: basta vedere le magliette che indossano i ragazzini quando improvvisano partite in strada; una volta a Battambang ho contato 2 Manchester United, 1 Liverpool, 1 Arsenal, 2 Chelsea, 2 Real Madrid, 3 Barcelona, 1 Bayern Monaco e 1 Milan. Giocavano 7 contro 7 ed uno era a torso nudo… Quando ha segnato quello con la maglia del Milan, la numero 13 di Nesta, non mi sono trattenuto e l’ho abbracciato: mi ha confessato che la maglia era un regalo di un turista italiano, lui in realtà tifa Man Utd perché gli piace Giggs. Grande Ryan Giggs, come non si può tifare per il quarantenne gallese che ha scritto lunghe pagine di successi sempre con la stessa maglia, quella dei Red Devils, con cui è cresciuto fin da piccolo. Al di là di un generale interesse per tutte le squadre inglesi (i miei vecchi compagni di calcetto sanno quante divise di Premier League e della nazionale ho sfoggiato in anni di partitelle…), quella per cui simpatizzo di più è il West Ham United Football Club. Perché proprio questa squadra non proprio irresistibile della periferia est di Londra ? Non ricordo sinceramente, forse perché al concerto degli Iron Maiden di Milano nel lontano 1990 sono rimasto affascinato dall’adesivo con il simbolo del club appiccicato al basso del mio idolo Steve Harris. Quel castello stilizzato con i due martelli incrociati sono in effetti il più accattivante “crest” di tutte le squadre d’Inghilterra. E poi per i colori “claret and blue”, le bolle di sapone sulle note di “Forever blowing bubbles”, le storie sugli hooligans della famigerata Inter City Farm trasposte in vari film e libri… o probabilmente per la storia del club, non solo i momenti di gloria ai tempi di Sir Bobby Moore capitano dell’unica Inghilterra campione del mondo nel 1966, ma anche e soprattutto le sue origini operaie, le sue radici che nel 1895 affondavano nella working class londinese che lavorava nel cantiere navale Thames Ironworks. Queste origini umili legano la mia squadra preferita inglese al mio grande amore italiano: il Milan. Perché è vero che si può criticare e si deve sperare che il calcio italiano si inoculi un po’ di cultura sportiva britannica, ma il primo amore non si tradisce mai ed il cuore è rossonero e l’anima “casciavit”. Chi ha fondato il Milan, nel lontano 16 dicembre 1899, presso la “Fiaschetteria Toscana” di via Berchet a Milano ? Il mitico Herbert Kilpin, operaio tessile originario di Nottingham, ultimo di nove figli, nato nel 1870 nel retrobottega della macelleria paterna al numero 129 di Mansfield Road. Trasferitosi in Italia per lavoro, insieme ad un gruppetto di appassionati inglesi ed italiani diede vita al Milan Cricket and Football Club, scegliendo il rosso ed il nero come colori societari. “Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari!”. E qui si chiude il cerchio, dall’Italia all’Inghilterra e ritorno, sulle ali del gioco più bello del mondo.
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