Laos: istruzioni per l’uso

Il viaggiatore occidentale, per quanto culturalmente preparato e mentalmente aperto, tende a filtrare la realtà del luogo in cui si trova attraverso i concetti, i valori, gli schemi interpretativi  e le prospettive che fin da piccolo gli sono stati inculcati dalla società di provenienza. E’ un fatto del tutto normale, ma per riuscire ad entrare in sintonia con gli abitanti del posto che si sta visitando e comprendere la logica dei loro comportamenti è necessario contestualizzare al massimo l’esperienza che si sta vivendo, nell’ambito della cultura e della mentalità locali. Specialmente se tale posto è in Asia. E ancora di più se nel mosaico asiatico stiamo parlando di Laos.

Il Laos geograficamente, culturalmente e storicamente è sempre stato isolato nel cuore della penisola indocinese e per questo i suoi abitanti hanno sviluppato nei secoli comportamenti e schemi sociali peculiari, spesso completamente diversi da quelli occidentali:  non è raro quindi per noi viaggiatori europei incappare in qualche situazione imbarazzante oppure apparentemente surreale quando si ha a che fare con i Lao. Senza pretesa di esaustività e con tutti i limiti di un discorso generalizzato, ecco un piccolo elenco di comportamenti e strumenti interpretativi che è consigliabile far propri quando si è ospiti di questo magnifico Paese e dei suoi abitanti.

“NON IMPORTA”

Il Buddismo sostiene che l’origine del dolore umano sia rappresentato dal desiderio di possedere cose materiali (intese come oggetti, persone, momenti esistenziali), le quali inevitabilmente non durano in eterno e quindi provocano sofferenza nell’istante del distacco, della scomparsa, del deperimento. La via per la felicità ed il modo più efficace per non soffrire è quindi non attaccarsi troppo alle cose, alle persone, ai fatti piacevoli o spiacevoli che capitano durante la vita. A questo concetto complesso, qui estremamente sintetizzato, si aggiunge un altro caposaldo del Buddismo: la credenza secondo cui il cosmo è il risultato di una concatenazione di eventi che a loro volta sono causa ed effetto di altrettanti eventi. Come si traducono questi concetti nel comportamento quotidiano del laotiano medio ? Mentre noi occidentali siamo abituati ad affrontare un problema, nell’universo buddista e quindi nella mentalità del laotiano c’è l’accettazione del problema. Pertanto, di fronte a qualcosa che va storto il laotiano reagisce con la frase che sintetizza l’essenza di un intero popolo: “bor penn yang”, cioè “non importa”.

Il turista occidentale che ordina un piatto al ristorantino locale di Vientiane e se ne vede recapitare un altro totalmente diverso oppure che si infila sotto la doccia nell’alberghetto di Luang Prabang e si accorge che gocciola solamente acqua fredda, inevitabilmente affronta di petto la questione e pretende che il problema sia risolto all’istante. Non c’è da stupirsi che il ristoratore o l’albergatore laotiano, di fronte alle lamentele del cliente occidentale, abbozzi un sorriso imbarazzato senza genuinamente comprendere quale sia il problema. Bor penn yang, nel piatto c’è comunque ottimo cibo, la doccia si può fare anche più tardi…

“NON ALZARE LA VOCE”

Sorrisi intervallati da “yes, yes”, senza che l’interlocutore laotiano muova un dito per provvedere alla soluzione del problema inducono l’ospite occidentale a pensare: “questo mi sta prendendo in giro!”. Il secondo errore dopo la cattiva interpretazione dei sorrisetti è alzare la voce. Nella società orientale alzare il tono della voce ed in generale manifestare apertamente le proprie emozioni è un comportamento considerato molto maleducato e fonte di imbarazzo. Non solo per chi lo subisce, ma soprattutto per chi lo attua: il laotiano si vergogna per un farang (letteralmente “francese” e, per pigrizia mentale o per proprietà transitiva, qualsiasi “straniero”) che sbraita e diventa tutto paonazzo e sudato, si paralizza, va in confusione ed il risultato è peggiore della iniziale lamentela. Inoltre nella vita di ciascuno in Laos c’è una forte componente animista e superstiziosa: chi grida attira gli spiriti cattivi nel luogo in cui avviene l’alterco, che qui restano anche dopo che il litigante se ne è andato. Ogni evento negativo successivo al litigio verrà attribuito automaticamente a colui che ha alzato la voce, che sia un lutto improvviso o un guasto alla tv che stava trasmettendo l’amata telenovela tailandese.

“NON TOCCARE”

Alzare la voce è quindi una manifestazione di rabbia che non fa parte del mondo laotiano, ma non è l’unico sentimento che i locali tendono ad esprimere in modo discreto. Anche la gioia, come la tristezza, è in genere un’emozione privata, intima: il contatto fisico è inusuale, sia esso un abbraccio tra amici, tenersi per mano tra fidanzati o baciarsi tra parenti. Da noi è normale incontrare qualcuno che si conosce e stringergli la mano o dargli una pacca sulle spalle oppure sfiorare le sue guance con un bacio. In Laos solo le persone molto intime hanno contatti fisici, il modo per salutarsi è quello di congiungere le mani davanti al petto, come per pregare, ed abbassare leggermente il capo. Più sono alte le mani giunte e maggiore è il rispetto per chi si saluta, fino alla fronte per i monaci e al capo per le statue del Buddha. Lo straniero che saluta la cameriera dell’albergo con un inchino e le mani giunte sopra la testa è come se dicesse “Buongiorno sua Santità”, suscitando quindi una certa perplessità. I monaci loro sì che sono considerati quasi divinità, a cui rivolgere il massimo rispetto: è vietato toccarli, le donne addirittura non possono avvicinarsi ad un monaco e se sul bus c’è un solo posto libero a fianco di un sacerdote con la tunica color zafferano piuttosto sta in piedi oppure chiede ad un altro uomo di lasciare un posto libero sedendosi lui di fianco al monaco. La testa è considerata la parte più sacra del corpo umano, mentre i piedi quella meno nobile: toccare la testa a qualcuno è un gesto maleducato ed estremamente offensivo in caso di un monaco, così come non è carino puntare i piedi per indicare qualcuno. Quando si visita il Laos non consiglio di scompigliare i capelli ad un bambino di qualche villaggio rurale, seppur con intenzioni affettuose: suscitereste imbarazzo e scapperebbe via. Ma senza piangere: non ho mai visto un bambino laotiano piangere. Non ho mai visto una carrozzina, un succhiotto, un passeggino in Laos: non so se esista correlazione, ma sembra che i bambini laotiani non piangano quasi mai.

“ATTENZIONE A NON PRENDERE IL SOLE”

Non essendoci sbocchi al mare i bambini laotiani amano giocare e nuotare nei fiumi e tra le cascate, lanciandosi in acrobazie tra sassi e scogli in totale libertà, senza particolare supervisione degli adulti. I Lao manifestano spesso una certa dose di pudicizia e non amano mostrare le proprie nudità. Gli uomini credo che un po’ si vergognino della pancetta da birra, anzi da BeerLao, l’amatissima bevanda nazionale servita rigorosamente con il ghiaccio nel bicchiere. Le donne invece, come in gran parte dell’Oriente, fanno il bagno vestite e in generale hanno un vero e proprio culto per la pelle bianca. In un Paese baciato dal sole tutto l’anno, spogliarsi, prendere il sole ed abbronzarsi è una pratica sconosciuta: avere la pelle abbronzata non è un canone di bellezza locale, anzi se qualche ragazza o donna deve muoversi sotto il sole, per esempio durante uno spostamento in motorino, copre ogni lembo di pelle con calze (senza rinunciare alle infradito d’ordinanza), pantaloni lunghi, felpa a maniche lunghe con cappuccio, spesso guanti e mascherina chirurgica sul volto. La mascherina medica da noi si vede solo addosso a qualche chirurgo o agli specialisti del reparto investigazioni scientifiche: in Oriente invece è un “capo d’abbigliamento” piuttosto diffuso, in certi casi per non contaminare il prossimo quando si ha il raffreddore, spesso per non respirare polvere lungo le strade sterrate, spessissimo per evitare che i raggi del sole possano imporporare o addirittura abbronzare le guance delle donne. Il viaggiatore e le viaggiatrici sensibili e rispettosi eviteranno quindi di indossare capi sbracciati o troppo scollati, oppure mini bikini per fare il bagno alle cascate di Kuang Si nei pressi di Luang Prabang.

“TOGLIERE LE SCARPE”

Ai bordi delle piscine naturali di acqua verde che compongono le splendide cascate di Kuang Si sono allineate decine di ciabatte infradito. E’ la calzatura più diffusa e comune in Laos: costa poco, non fa sudare il piede e si può mettere/togliere con facilità. Una consuetudine che accomuna il Laos e, per esempio, la Svezia è quella di togliersi le calzature prima di entrare in un luogo chiuso: da qui la diffusione delle comodissime infradito. Se si entra in un tempio è un segno di rispetto per la sacralità del luogo togliersi le scarpe; se si entra in una casa privata (e spesso anche in un negozio, dato che questi due ambienti in Laos frequentemente coincidono) è un segno di rispetto per la sacralità del focolaio familiare. In ogni caso è una sorta di questione igienica: come in Svezia si usa togliere le scarpe per evitare di portare in casa la neve ed il fango delle strade, ugualmente in Laos si usa togliere le scarpe per evitare di portare in casa, albergo o negozio la terra e la polvere delle strade.

“NON C’E’ FRETTA”

Le strade in Laos non hanno nome né numero. La gente comune conosce la strada e conosce i luoghi solo perché ci passa fisicamente, non perché sia in grado di leggere una mappa. Il laotiano medio non conosce la geografia, non è capace di posizionare il proprio Paese sul mappamondo e nemmeno di individuare la propria casa sulla cartina della propria città. Nella vita viaggia poco e nella maggior parte dei casi si sposta solo nell’area raggiungibile con il proprio motorino. D’altronde la sua vita è imperniata sul soddisfacimento di tre esigenze fondamentali (mangiare, bere, dormire), quindi in genere non ha grandi motivi per spostarsi. In Laos la vita è semplice: la terra è generosa e non si muore di fame, la BeerLao è più capillarmente diffusa dell’acqua e per dormire c’è sempre… il posto di lavoro. Il turista occidentale può trovarsi spiazzato di fronte ai ritmi di lavoro dei laotiani, ma questi riflettono semplicemente i ritmi della loro vita. Cioè lenti ai nostri occhi, molto lenti: in effetti, che fretta c’è ? Perché correre, affannarsi, stressarsi ? Per andare dove o per raggiungere cosa ? C’è un famosissimo detto nel Sud Est Asiatico, risalente al tempo degli sprezzanti coloni francesi, che ben sintetizza il rapporto dei laotiani con il lavoro: “i vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano crescere, i laotiani ascoltano il riso che cresce”.

Il segreto per apprezzare il Laos ed imparare ad amarlo, senza delusioni ed incomprensioni è semplice: liberarsi dai preconcetti e dalle infrastrutture mentali tipiche dell’Occidente, rallentare i propri ritmi, i propri movimenti ed i propri pensieri, abbandonare l’apnea della vita moderna e riprendere a respirare, a godere delle bellezze del posto, in breve entrare in sintonia con la lentezza di questo incredibile “stato d’animo”.

“Io i piedi ce li misi per la prima volta nella primavera del 1972. Su uno dei terrazzini dell’Hotel Constellation a Vientiane, c’era una ragazza hippie, bionda, che fumava una sigaretta di marijuana così forte che se ne sentiva l’odore per tutte le scale. Vedendomi arrivare, come volesse confidarmi una formula segreta per capire tutto, mi sussurrò: <<Ricordati, il Laos non è un posto; è uno stato d’animo >>”.

Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse”

A chi fosse interessato ad approfondire gli usi, i costumi e le tradizioni del Laos consiglio di leggere il libro “Laos” di Mauro Proni, italiano trapiantato in Oriente, fonte di ispirazione di questo articolo: chi è già stato nel Paese asiatico si riconoscerà in molti aneddoti citati da Mauro o magari riuscirà ad interpretare a posteriori alcune situazioni vissute in loco come surreali. Chi non vi è ancora stato, potrà disporre di un utile strumento per capirlo ed apprezzarlo appieno.

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