La magia del Ladakh: expect the unexpected !

Dopo tanti anni di viaggi in India, effettuati personalmente o organizzati ad altri durante la mia attività di travel designer, mi sono convinto che l’India non è un luogo che si decide di visitare, non è una destinazione che si sceglie di raggiungere: è esattamente il contrario, è l’India che ti sceglie, ti accoglie, ti avvolge, ti invita. Non siamo noi che entriamo in India, è l’India che entra in noi. E questa sensazione è ancor più rafforzata se, nell’ambito del vastissimo subcontinente indiano, la meta specifica è la regione del Ladakh.

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Questa terra racchiusa tra le imponenti catene montuose dell’Himalaya e del Karakorum si trova nello Stato federato di Jammu and Kashmir, nell’India settentrionale, a ridosso dei confini pakistano e cinese. Il suo territorio è desertico di alta montagna, con qualche oasi verde come il capoluogo Leh, che conta circa 10000 abitanti: l’altitudine media è sui 4000 metri ed il clima oscilla tra il gelido ed il fresco per tutto l’anno.

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Il Ladakh non è una meta di viaggio che si sceglie sfogliando una rivista o puntando a caso il dito sul mappamondo che gira. Non è un luogo a cui si pensa per una vacanza convenzionale: “quest’anno ho voglia di montagna, cosa dici cara, preferisci Corvara in Val Badia o Nurla nella Valle di Nubra?”. No, un viaggio in Ladakh deve essere frutto di una scelta consapevole e ben motivata, per questo sono convinto che sia il Ladakh a scegliere chi accogliere tra le sue valli e le sue montagne, non viceversa. Perché il Ladakh è una terra difficile, remota, di confine, non adatta a tutti.

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In Ladakh fa freddo. Non tanto durante il giorno, quando ci si muove e basta essere ben coperti, ma soprattutto di notte: nei campi tendati, nelle guesthouse, nei semplici alberghi il riscaldamento è ancora l’eccezione. Si dorme avvolti in coperte e altre coperte ancora e se non bastano si tengono addosso il pail e la calzamaglia:  perché di notte la temperatura può scendere ampiamente sotto zero anche nella stagione più mite, quella che va da maggio a settembre. E spesso il vento gelido si insinua sotto porte e finestre, i doppi vetri qui sono una rarità.

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Se il Ladakh ti instilla il desiderio di visitarlo, allora tutto è superabile, anche la semplicità e le condizioni spartane dei suoi campi tendati e dei suoi hotel; un po’ più difficile, magari per alcuni, è adattarsi all’idea che i bagni pubblici, quelli per strada o nei punti di ristoro, consistano in semplici 4 pareti ed 1 buco.

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Certo, usufruire del bagno situato nel parcheggio del monastero di Diskit può essere disagevole, la finestra non ha vetri e l’aria fresca filtra depurando fin troppo l’ambiente, ma lo “sforzo” è ripagato dalla vista impareggiabile sulla valle di Nubra che si gode appunto dalla latrina.

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Non è che nei ristoranti la situazione sia molto migliore, a livello di servizi igienici, ma in compenso il cibo è sempre molto dignitoso. Qui, ai confini tra terra e cielo, la varietà e qualità del cibo dipendono ancora moltissimo dalle bizze del clima: l’agricoltura di alta montagna che viene praticata soprattutto in forma di sussistenza lungo le sponde dei fiumi Indo e Zanskar produce patate, insalatine piuttosto amare, tuberi vari, carote e albicocche.

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Il resto proviene via strada dal Kashmir, sempre che le strade siano ben percorribili: quest’anno alcune nevicate di tarda stagione hanno rallentato l’arrivo a Leh dell’aglio e questo fatto ha tormentato non poco i cuochi e le massaie locali, privati di un ingrediente immancabile nella cucina indiana. Gran parte dei ristoranti ladakhi consiste in una saletta con vari tavoli ammassati ed una cucina con fornelli alimentati da bombole a gas: il menu offre circa 5/6 piatti, di cui in genere ne mancano 1 o 2.

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Le bibite gasate tipo Coca Cola o Fanta non mancano mai sul menu, ma mancano sempre nella dispensa del ristoratore: un valido surrogato è il succo di mela dal Kashmir, dolce e naturale, con cui accompagnare semplici pietanze come gli squisiti momo (ravioli ripieni, fritti o al vapore), i noodles cinesi “chow mein”, la zuppa di verdure, il riso fritto o al vapore, con carne di pollo o di montone e delle scodelle di inquietanti spaghetti istantanei in brodo di marca Maggi (pronunciata dai locali “magghi”).

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Nei resort e negli alberghi la scelta di piatti è più ampia ed in alcuni casi raggiunge anche dei lodevoli, seppur discutibili, tentativi di proporre pizza e pasta, ma in genere per i pranzi o si fa affidamento ai box-lunch forniti dal proprio hotel al mattino oppure ci si ferma nei localini di Leh che si affacciano sul “main market” o quelli un po’ più “vissuti” che si trovano lungo le strade e che sono raccomandati dagli autisti locali.

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Questi ultimi sono dei veri artisti della strada e come tutti gli artisti alternano manifestazioni di puro talento alla guida con momenti di fantastica follia. Mediamente i veicoli quassù si presentano in condizioni un filo vissute, d’altronde la polvere si insinua ovunque e soprattutto neve, fango, sassi e buche sono gli elementi con cui ruote e sospensioni hanno a che fare quotidianamente per lunghi tratti. Qualche autista si dota di catene da neve, ma la maggior parte si cimenta in strada con gomme non certamente invernali, ma anzi in condizioni che il mio gommista di fiducia considererebbe “buone solo per cancellare i segni di matita”. Le strade in Ladakh sono generalmente tortuose, strette, ricche di buche, talvolta non sono altro che piste tra i sassi e la sabbia, spesso si presentano ad una sola corsia come quelle che raggiungono i passi del Kardung La e del Chang La. Gli autisti vivono in simbiosi con il proprio veicolo, lo curano e lo tengono pulito quotidianamente, spesso di notte dormono sui sedili con addosso una semplice giacchetta, conoscono ogni strada e scorciatoia e vantano un’esperienza ed una familiarità incredibili con l’ambiente di montagna.

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Questa familiarità spesso si traduce in atteggiamenti alla guida poco compatibili con la concezione di sicurezza su strada tipica del mondo europeo: a parte la nostra scarsa dimestichezza con la guida a sinistra, retaggio del periodo coloniale sotto l’impero britannico, il visitatore non autoctono se vuole evitare un esaurimento nervoso non deve prestare attenzione agli scarsi centimetri di spazio tra il burrone e la ruota del proprio veicolo, alla velocità apparentemente eccessiva e sproporzionata rispetto al fondo scivoloso di molte strade, alle curve completamente cieche imboccate a tutta birra nel bel mezzo della carreggiata, ai sorpassi con il clacson spianato nei confronti di file di giganteschi camion militari pieni di soldati traballanti seduti nel cassone posteriore con in mano fucili altrettanto traballanti, alle lunghe conversazioni via sms con amici, parenti, fidanzate che l’autista intrattiene con il cellulare mentre effettua tutte le precedenti menzionate attività.

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A poche centinaia di metri dal passo Chang La (5360 metri sul livello del mare), mi trovo davanti ad una scena meravigliosamente indiana e quindi meravigliosamente surreale allo stesso tempo: strada ad una corsia coperta da 30 cm di neve che si arrampica tortuosa tra distese alte 2 metri di altra neve; paesaggio fiabesco e rarefatto in cui gli unici colori sembrano il bianco abbagliante ed il blu del cielo terso, l’ambiente ideale per avvistare il leopardo delle nevi o l’aquila dorata; traffico fermo; nessuno sale, nessuno scende; coda, colonna di veicoli in salita fermi, colonna di veicoli in discesa fermi, apparentemente nessuno spazio per alternarsi e sbloccare lo stallo; un camion militare con il cassone strapieno di bidoni metallici che sbattono tra loro (chissà cosa contengono, benzina, lubrificanti, oli combustibili, petrolio… boh, meglio non saperlo) tenta di procedere slittando e sbuffando a pochi centimetri da un altro gigantesco camion le cui ruote motrici non riescono a far presa sulla neve a causa delle continue oscillazioni del carburante contenuto nella sua cisterna (questo si sa che è carburante infiammabile, perché è scritto a grandi lettere con la vernice rossa). Non serve far notare che nessuno dispone di catene da neve o quantomeno di pneumatici invernali. La situazione sembra impossibile da risolvere, due camion enormi che si fronteggiano su una strada ad una corsia a 5200 metri piena di neve, entrambi con gomme lisce e circa 20 auto/pulmini alle proprie spalle in entrambe le direzioni. Ma gli indiani, si sa, non sono gente qualsiasi: dopo circa 3 ore, tra innumerevoli tentativi, sabbia buttata sotto le ruote, tra conciliaboli in hindi, ladakho, inglese e hinglish di autisti, passeggeri e militari, tra tazze di gur-gur chai bollente spuntate da thermos improvvisati e altri innumerevoli tentativi, sabbia, conciliaboli e chai sempre più tiepido, miracolosamente la situazione si sblocca ed il traffico torna a scorrere lentamente in questa remota arteria di montagna. In genere a chi non è del posto (o a chi non è Simone Moro) si consiglia di restare non più di 10/15 minuti oltre i 5000 metri di altitudine, giusto il tempo per qualche foto ricordo, per sorseggiare un chai al rifugio o per la minzione più alta della vostra vita. Dopo 3 ore la scarsità di ossigeno e le emozioni di un ingorgo stradale ad alta quota prendono il sopravvento e mi appisolo lungo i tornanti della discesa, mentre tra i meandri della mia mente annebbiata e pulsante di dolore si fa largo un pensiero “ma perché al posto dell’autista sta guidando Gigio Donnarumma?”. In realtà non c’è da preoccuparsi, il talento degli autisti alla guida prevale (quasi) sempre sulle loro bizzarrie di artisti del volante e al mio risveglio al Gompa di Chemrey il portiere del Milan aveva lasciato il posto al nostro driver Fida alla conduzione della Mahindra.

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Un altro aspetto del Ladakh che può far desistere il viaggiatore comune da una visita a queste altitudini è la massiccia presenza militare dell’esercito indiano. Parliamo di una zona di confine, da una parte c’è il Kashmir con le continue tensioni tra hindu e musulmani che risalgono all’indipendenza dell’India e alla suddivisione del suo vasto territorio con la nascita di Pakistan e Bangladesh; poi c’è appunto il confine con il Pakistan, un Paese a parere dei miei amici indiani “più dedito a spendere il proprio PIL in armamenti che in scuole e strade”; infine c’è il confine con la Cina, altra super potenza mondiale con cui l’India mantiene rapporti di reciproca diffidenza e che i monaci ed i buddisti locali ritengono responsabile della persecuzione culturale e anche fisica nei confronti dei cugini tibetani.

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Non sorprende perciò che le vallate ladakhe siano disseminate di accampamenti militari e che il suo territorio (strade, passi, ponti, aeroporto) sia sotto stretto controllo dell’esercito. Come straniero ho dovuto richiedere ed ottenere svariati permessi per muovermi per esempio nella valle di Nubra e nella zona del lago Pangong, situato a pochi chilometri dal confine sino-tibetano. In generale, non è che la presenza militare crei grande disagio o fastidio; personalmente mi inquieta sempre un pò vedere un soldato in uniforme con una mitragliatrice a tracolla che fa la spesa in un emporio di Leh, non amo il mondo militaresco e quindi sono allergico alla retorica degli slogan che campeggiano un po’ ovunque in Ladakh, tipo “train hard, fight easy” o “only best of the friends and worst of the enemies visit us”… bisogna ammettere comunque che senza l’Indian Army non ci sarebbero strade e ponti, approvvigionamenti alimentari e di carburanti, linee elettriche e anche internet: tralicci, ripetitori e connessioni varie dipendono dal lavoro dei militari che dopo ogni inverno ripristinano gli impianti e consentono una seppur instabile distribuzione di elettricità e di un debole segnale internet.

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Ma il viaggiatore che, nonostante le suddette argomentazioni “deterrenti”, senta ancora il richiamo del Ladakh, non si preoccupa certo della mancanza di una connessione internet.

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Chi decide di partire in aereo da Delhi per raggiungere l’aeroporto di Leh, comincerà a stropicciarsi gli occhi non solo per il sonno (i voli partono all’alba), ma anche per i paesaggi straordinari che si ammirano dall’alto: vallate di alta quota, picchi innevati che sembrano sfiorare le ali protese dell’aeromobile, lande immacolate e poi…. boom ! Eccolo, il Ladakh, con le sue rocce color oro ed i suoi villaggi circondati da oasi verdi: già atterrare qui è uno spettacolo.

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Trovarsi ad un’altitudine variabile tra i 3500 metri di Leh ed i 5600 metri sul livello del mare del passo Kardung La è un’esperienza letteralmente per cuori forti; l’aria rarefatta, leggera, fredda di un freddo secco e povero di ossigeno, ha subito effetti benefici: il fumo viene abolito, neanche il tabagista più incallito riesce a inalare più fumo che ossigeno senza rischiare lo svenimento, la dieta si riduce a cibi leggeri e in quantità più limitate oltre che a tanti liquidi che provocano una sana e frequente attività depurativa della vescica, i movimenti e la camminata pian piano assumono un ritmo meno frenetico e più in sintonia con la natura del luogo, lo smartphone sempre più spesso rimane in tasca e viene consultato sempre con minor frequenza, tanto è costantemente muto e sconnesso dal mondo.

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Ma la metamorfosi più affascinante che la gente subisce in Ladakh è legata al silenzio: anche le persone più loquaci e logorroiche qui non riescono a respirare, camminare e parlare allo stesso tempo, cominciano ad affannarsi e quindi imparano a tenere a freno la lingua, a pensarci più volte prima di sprecare energie ad aprir bocca, a risparmiare letteralmente il fiato.

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Nel silenzio ritrovato, è possibile apprezzare il suono del vento che soffia tra i pioppi di montagna, il richiamo delle marmotte che corrono tra le rocce, il fruscio delle ali di una gazza che porta un ramoscello a rafforzare il nido, il gorgoglio delle acque del fiume Indo, costante compagno di viaggio in queste valli… Oppure,  semplicemente, contemplare il silenzio: unico e travolgente per chi è purtroppo assuefatto a trilli, vibrazioni, suonerie, vociare, chiacchiericci e rumori urbani assortiti.

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Sul tetto del mondo, ad un passo dal cielo e lontano dai rumori e dalle comodità delle grandi città, viene quasi naturale la riflessione e la meditazione sui grandi temi della spiritualità: di fronte ad una natura così incontaminata, selvaggia, dirompente, bellissima, eterna… è inevitabile chiedersi chi ha creato tutto ciò, come e perché.

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In queste terre himalayane sorgono innumerevoli monasteri buddisti, strutture semplici, spartane, fatte di legno e pietre antiche, decorate con infinite ruote delle preghiere o bandierine colorate che diffondono nel vento il mantra “om mani padme hum”: in questi rifugi più o meno remoti, affacciati su paesaggi di una intensità emotiva quasi divina, lontani dai comfort e dalle tentazioni, vivono intere comunità di monaci, pacifici ed indisturbati (a differenza dei loro pari tibetani), dedicandosi agli studi, alla preghiera, alla meditazione, alla medicina ayurvedica-tibetana, alla ricerca buddista del Nirvana e anche alla risoluzione di problemi molto più terreni come la gestione di orfanotrofi, la cura dell’educazione tramite seminari e scuole per i bambini locali, la stampa e diffusione di scritti per esempio sui cambiamenti climatici (se ne accorgono i monaci a 4000 metri, com’è che non se ne accorge il presidente degli Stati Uniti d’America?).

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In Ladakh esistono innumerevoli monasteri, tutti affascinanti e interessanti da visitare, ma alcuni mi hanno colpito particolarmente: quello di Diskit beneficia di una vista magnifica sulla valle di Nubra e sulle sue caratteristiche dune di sabbia solcate dal fiume Shyok; quello di Thiksay, arroccato su una collina ad una ventina di chilometri da Leh, è incredibilmente scenografico nella sua somiglianza con il Potala di Lhasa e per questo ben riconoscibile anche a grande distanza; quello di Lamayuru, dall’architettura semplice e lineare, venne edificato dove si incontrano spettacolari conformazioni geologiche che sembrano provenire direttamente da un paesaggio lunare ed una vallata ricca di campi e terrazzamenti all’ombra di immense vette innevate; quello di Alchi, poco attraente dall’esterno, ma che al suo interno svela stupende decorazioni lignee e pregevoli affreschi colorati di scuola kashmira.

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Chi sente forte il desiderio di viaggiare in Ladakh non resterà deluso dalla magia di questi spazi immensi e dalla sua natura dominante, il Ladakh sa ricompensare coloro che non temono di superare i disagi e le scomodità necessari per raggiungerlo e per viverci.

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A me il Ladakh ha regalato un’emozione probabilmente irripetibile: dopo un lungo e scenografico percorso attraverso la valle del fiume Shyok, caratterizzato da una sequenza infinita di scorci panoramici continuamente cangianti a seconda del movimento e della forma delle nuvole, giungo sulle rive del lago Pangong, un luogo remoto situato letteralmente nel nulla, a 4200 metri di altitudine, tra pacifici yak che contendono agli asini selvatici i pochi fili d’erba che crescono qui, ad una manciata di chilometri dal confine tibetano.

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Le sfumature del tramonto trasformano i colori dell’acqua del lago come il pennello sulla tavolozza di un pittore impazzito: blu, turchese, smeraldo, poi arancione, violetto ed infine grigio e nero, nerissimo, scuro come il cielo che si fa buio. Dal mio bungalow affacciato sul lago, dotato di un’ampia vetrata, mi godo questo spettacolo della natura sdraiato sul letto.

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Mi addormento profondamente, ma in piena notte, verso le 4, qualcosa infastidisce il mio sonno, comincio a girarmi e rigirarmi sotto le spesse coperte… finché cedo ed apro gli occhi: un bagliore lieve, ma insistente, diffuso, proviene dalla vetrata. L’alba alle 4 del mattino? Impossibile. Stropiccio gli occhi ed osservo meglio: una stellata mozzafiato ricopre tutto il cielo limpido, stelle a perdita d’occhio trafiggono il nero del firmamento e si riflettono nelle acque del lago. Il cielo avvolge la terra in un tripudio di stelle e io lì, piccolo ed insignificante, a bocca e occhi spalancati, che osservo estasiato come un bimbo col naso incollato al vetro…

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…questa è la magia del Ladakh: “expect the unexpected!”.

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Un viaggio nella cucina indiana

Il masala è una mistura di spezie naturali dalle caratteristiche molto diverse tra loro: coriandolo, cumino, cardamomo, pepe nero, semi di finocchio, senape, chiodi di garofano, peperoncino e curcuma. Queste spezie, miscelate sapientemente ed in modo equilibrato tra loro, sanno dar vita e sapore a molti piatti della gastronomia orientale.

masala

Il masala, parola che deriva dal persiano “maṣālih”, cioè “ingredienti”, è da considerare l’essenza della gastronomia indiana: non solo perché rappresenta la base di ogni creazione culinaria locale, ma anche perché riflette la ricchezza e la varietà culturale, etnica, geografica, storica dell’India stessa.

Assaporare le pietanze dell’India è come tracciare un percorso di viaggio nei suoi immensi territori, partendo dalle alte vallate himalayane fino alle coste meridionali bagnate dal Mar Arabico.

In alta montagna, al confine col Tibet e lungo la valle dell’Indo, la natura non è generosa con gli abitanti del Ladakh: la loro cucina è essenziale, energetica, si basa su zuppe calde come la thukpa, un denso brodo di patate, barbabietole, fagioli, pezzi di pollo e montone, con riso e piadine di farina ad accompagnare il tutto. Una giornata di meditazione al monastero di Thiksey non può che cominciare con una tazza bollente di gurgur chai, un tè verde molto forte, condito con burro e sale, che prende il nome dal caratteristico suono dell’acqua durante la bollitura.

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Le vaste pianure dell’India settentrionale, quelle intorno a Delhi, del Punjab e del Rajasthan, sono state storicamente terre di passaggio e di grandi invasioni: il carattere della gente, i tratti somatici, le forme culturali come la danza e la musica, nonché le opere architettoniche del passato come il monumentale Taj Mahal, nei secoli si sono miscelati, sfumati e armonizzati, esattamente come le spezie del masala. I mercanti provenienti dall’Europa e dal Medio Oriente lungo le vie carovaniere trasportavano con sé pietre preziose, tessuti raffinati, idee innovative, ma anche spezie e cibi esotici. Ugualmente gli imperatori moghul di origine araba, insieme alla propria religione, portarono e imposero in India tradizioni culturali e gastronomiche tipiche delle loro zone di provenienza.

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La cucina dell’India del Nord è fatta di sapori forti, nasce al sole del deserto del Thar sotto i cui raggi i peperoncini vengono lasciati ad essiccare, perdono i loro umori ma conservano il fuoco che andrà poi a insaporire molti piatti della cucina rajasthana.

Ogni regione dell’India propone il proprio thali, cioè letteralmente un “vassoio” contenente un intero pasto suddiviso in tazze (katoris) da cui attingere rigorosamente a mani nude: la quintessenza della cucina del Nord è la lenticchia, detta daal, paragonabile forse alla pasta italiana per la quantità e la qualità di varianti con cui viene cucinata e proposta; per tradizione religiosa, molti indiani sono vegetariani e le lenticchie insieme al riso byriani (cioè al vapore) e alle piadine (in tutte le sue forme: chapati, roti, naan) rappresentano la base di un pasto tipico. Il thali viene arricchito con alcune salse a cui attingere per insaporire i cibi, tra cui le varie chatni (cioè condimenti “chutney” agrodolci a base di frutta o verdura e zucchero) e gli intingoli a base di yogurt con l’aggiunta di foglioline di menta fresca tritata.

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La mucca in India è simbolo di benessere, da secoli aiuta nei lavori agricoli, fornisce nutrimento grazie al latte e ai suoi derivati e anche combustibile grazie ai suoi escrementi accuratamente raccolti ed essiccati. Non sorprende che gran parte degli indiani non mangi carne di bovino: la tradizione religiosa si fonde da secoli al buon senso, vi immaginate più di un miliardo di persone che alleva e consuma mucche ? Le risorse agricole del Paese si esaurirebbero in pochi decenni….! Ma chi, pur rispettando “the holy cow”, gradisce gustarsi altri tipi di carne, la cucina locale offre un’infinità di piatti a base di pollo, montone, agnello e più raramente suino.

Nel Nord dell’India, il più antico e tradizionale metodo di cottura delle carni è rappresentato dal forno tandoori, consistente in una campana d’argilla rovesciata (spesso parzialmente interrata) in cui la brace sul fondo cuoce uniformemente i cibi introdotti. Il forno tandoori viene utilizzato prevalentemente per arrostire le carni che vi vengono introdotte su lunghi spiedini (kebab), ma anche le verdure (pomodorini, cipolle, patate…) e le piadine; queste ultime vengono letteralmente “stampate” sulle pareti del forno e lasciate scaldare fino a diventare fragranti e l’abilità del cuoco consiste nel recuperarle un attimo prima che si stacchino da sole e cadano nella brace.

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Man mano che si percorre il subcontinente indiano e si scende verso il Sud, le tradizioni gastronomiche cambiano ed interpretano localmente i cardini basilari della cucina nazionale.

Ogni regione propone il proprio thali assemblando gli ingredienti locali secondo innumerevoli variazioni; per esempio in Maharastra, la regione di Mumbai, sia le bancarelle per strada che i raffinati ristoranti urbani alla moda propongono un piatto tipico molto apprezzato, il pav bhaji, una sorta di passato di verdure speziato accompagnato da un soffice panino al burro.

Nell’India del Sud la cucina è influenzata dal clima tropicale e dalla presenza del mare: gli ingredienti sono freschi e i raccolti abbondanti grazie alla maggior presenza di acqua, le risaie si estendono tra il mare e le “backwaters” del Kerala, i sapori si addolciscono e sono meno piccanti rispetto al Nord. I pescatori di Kochi usano ancora le antiche reti quadrate cinesi per catturare il pesce fresco, oppure solcano le acque del mar Arabico per portare sulle tavole sardine, sgombri, gamberi ecc.

Il latte di cocco è molto diffuso da queste parti e contribuisce alla preparazione di molti piatti che spesso fanno uso di verdure e frutta fresche (come le banane, le cui foglie vengono frequentemente utilizzate per decorare le pietanze), accompagnati da riso basmati.

Forse uno dei piatti più famosi e diffusi in Karnataka, Kerala e Tamil Nadu, pur con varianti locali, è il masala dosa, una pastella di lenticchie e riso fritta e farcita a piacimento con verdura, carne, pesce, formaggio.

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Le colline che da Munnar e Peryar scivolano dolcemente fino al mare ospitano poi delle immense piantagioni di tè, grazie al microclima favorevole di queste altitudini: furono i britannici ad intraprendere alla fine dell’Ottocento il processo di produzione di tè e tuttora questa bevanda ha un larghissimo consumo in India, a colazione, ma anche alla fine dei pasti o durante la giornata. Una versione molto tipica e gustosa è il masala chai, cioè un tè nero insaporito con il latte e aromatizzato con un pizzico di spezie (tra cui zenzero e cardamomo).

L’India del Sud, grazie alle sue ampie risorse naturali, ha fatto gola (letteralmente) a molte potenze coloniali europee e in queste regioni strategicamente affacciate su due mari si sono succeduti protettorati e comunità mercantili di varie nazionalità. Questo masala di culture ha lasciato delle forti influenze anche sulla gastronomia locale, basti pensare alla presenza olandese e portoghese a Kochi in Kerala o a quella francese a Pondicherry in Tamil Nadu.

La Gran Bretagna è però la nazione che più diffusamente e più a lungo ha dominato l’India: in campo gastronomico gli inglesi non avevano molto da insegnare ed imporre agli indiani e per questo prevalentemente si sono fatti loro influenzare dalla cucina locale, portando nella madrepatria ingredienti e ricette imparate localmente. L’esempio più famoso di questo masala gastronomico è il curry: nacque in Tamil Nadu come kari, una densa salsa speziata destinata ad accompagnare carni, riso e verdure stufate, venne adottata dai Portoghesi e poi dagli Inglesi che reinterpretarono e diffusero il curry in patria; invertendo la proporzione degli ingredienti, la salsa indiana che insaporiva pollo e riso divenne, con l’introduzione del peperoncino scoperto in Sudamerica, uno stufato inglese piccante di pollo con un po’ di riso d’accompagnamento.

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Oggi il curry è una pietanza gustata e cucinata in tutto il mondo e, grazie agli oltre 9000 ristoranti indiani, bengalesi e pakistani presenti nel Regno Unito, è stato recentemente riconosciuto come uno dei piatti nazionali britannici.

Altri cibi e bevande fecero il percorso inverso dalla Gran Bretagna all’India, tra queste la birra: George Hodgson, un mastro birraio che riforniva le truppe britanniche di stanza oltremare, riuscì all’inizio dell’Ottocento a produrre una birra leggermente ambrata ad alta fermentazione (pale ale) che, grazie al robusto impiego di luppolo del Kent appena colto, fosse in grado di resistere ai 6 mesi di viaggio per mare, in barili di legno…. nacque così l’India Pale Ale (IPA).

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E’ opinione diffusa che l’India non sia adatta ad essere visitata con i bambini ed erroneamente molti pensano che il cibo locale sia la causa principale: troppo speziato e piccante per essere apprezzato dai piccoli viaggiatori. In realtà la ricchezza e la varietà della cucina indiana consentono di trovare tranquillamente e in ogni regione qualche pietanza e bevanda conforme ai gusti dei bambini.

I samosa, per esempio, sono piccoli snack apprezzati da tutti i bimbi indiani che li divorano a merenda e perfetti anche per gli stomaci affamati dei giovani visitatori: fagottini ripieni di verdure e/o di carne tritata, di forma triangolare, da immergere a piacimento in qualche intingolo.

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Una bevanda molto apprezzata da grandi e piccoli, diffusa in tutta l’India, è il lassi, una bibita rinfrescante a base di yogurt, insaporita con un pizzico di cannella o altre spezie. Viene sorseggiata nelle calde estati indiane, in bicchieri di coccio, spesso a fine pasto grazie alle sue proprietà digestive, frequentemente frullata con frutta fresca come mango, banana o essenza di rosa.

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Nel panorama gastronomico indiano non manca poi un’infinità di dolci, letteralmente da leccarsi le dita: il gulab jamun consiste in palline di latte e farina fritte, ricoperte da sciroppo; il gelato indiano, detto kulfi, ha un delicato retrogusto di spezie, soprattutto cardamomo e viene proposto in gusti tratti da ingredienti locali come pistacchio, mango e mandorle; imperdibile infine è il budino di riso indiano, conosciutissimo come kheer, una specialità a base di burro chiarificato (ghee), latte, riso, zucchero, anacardi e un pizzico di zafferano a colorare e insaporire il tutto.

Dopo tutto questo mangiare e bere, cosa manca per concludere il pasto e aiutarci a digerire tutte queste squisitezze indiane? Piccoli scrigni in legno e argento svelano una serie di cassettini traboccanti di semi di finocchio, anice e sesamo, cristalli zuccherati, scaglie di cocco e chicchi alla menta: sono i mukhwas, il modo più rinfrescante e colorato per concludere la nostra esperienza culinaria indiana.

mukhwas

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Paesaggi e sapori d’Italia, tra Marche e Toscana (parte seconda)

Giungiamo nelle Terre di Siena al calar del sole, quando le ombre dei cipressi si allungano sui campi di girasoli: il paesaggio è il primo aspetto che colpisce chi si addentra nella campagna toscana, un paesaggio naturale fatto di dolci colline e di pendii modellati dalla mano dell’uomo in poderi, campi e oliveti. Non è difficile intuire il motivo della popolarità di cui gode questa terra tra i viaggiatori, soprattutto nordeuropei: panorami bucolici baciati dal sole, deliziosi borghi intrisi di storia e cultura, gastronomia d’eccellenza fondata sulla produzione di carne chianina e di buon vino.

Tramonto estivo sulle "terre di Siena" (vikingandre.com)

Tramonto estivo sulle “terre di Siena” (vikingandre.com)

Anna ci accoglie nel suo casolare trasformato in bed&breakfast: Casa Elisa tra Sinalunga e Lucignano (http://www.casaelisa.net/) è la location ideale per una vacanza dinamica nella campagna toscana, in quanto sufficientemente isolata per godersi un po’ di relax e tranquillità, ma anche ben servita per esplorarne i dintorni. La cortesia e la disponibilità di Anna sono un apprezzato valore aggiunto e la presenza di una bella piscina circondata da un curato giardino dotato pure di barbecue rende il soggiorno presso Casa Elisa molto apprezzato da famiglie con bambini come la nostra.

Casa Elisa, Sinalunga (web)

Casa Elisa, Sinalunga (web)

Non occorre soffermarsi sulla descrizione dei borghi che compongono la galassia turistica dell’entroterra toscano: località quali San Gimignano con le sue imponenti torri, Monteriggioni con le sue antiche mura fortificate, Siena con la sua celebre piazza del Campo sede del Palio, Chiusi con le sue antiche vestigia etrusche, Pienza con la sua passeggiata romantica e le sue botteghe dell’olio e del formaggio pecorino, Cortona con la sua bella scalinata che porta al palazzo comunale e Chianciano con le sue terme dalle acque benefiche godono tutte di un’ampia popolarità e sono quindi  meta di un numero molto maggiore di visitatori rispetto a quelle marchigiane e in effetti meritano senz’altro una visita. Un piccolo borgo medievale che generalmente non compare nel radar del turismo di massa è Lucignano, in Valdichiana: ci appare alla sommità di una collina nella consueta armonia del paesaggio rurale toscano e ci colpisce piacevolmente con il suo impianto urbanistico di forma ellittica ad anelli concentrici.

Pienza (vikingandre.com)

Pienza (vikingandre.com)

Anche Montepulciano raccoglie un particolare consenso durante la nostra visita: viene spontaneo pensare agli scorci romantici e ai pittoreschi vicoli del suo centro storico dove Medioevo e Rinascimento paiono fondersi, oppure all’impareggiabile vista panoramica sulla Val d’Orcia e sulla Val di Chiana o infine alle prelibatezze che si possono gustare nelle sue innumerevoli taverne e osterie. No, in realtà il successo di Montepulciano tra chi, come noi, ha figlie teenager, è dovuto soprattutto al fatto che tra le sue strade sono state filmate alcune sequenze di “Twilight-New Moon”, pellicola che racconta le vicissitudini d’amore tra una giovane umana, Bella, e un bel vampiro, Edward. La storia originale tratta dal romanzo di Stephanie Meyer del 2006 è ambientata in realtà a Volterra, ma ai registi del film è sembrata più adatta la location della piazza centrale di Montepulciano.

Bella a Montepulciano (...ma nel film non era Volterra ?!?) web

Bella a Montepulciano (…ma nel film non era Volterra ?!?)

In questa zona, particolarmente famosa per i vigneti e per la qualità del suo vino, troviamo con sollievo un agriturismo che produce invece dell’ottima birra artigianale: la Brasseria della Fonte (http://www.lafonte.toscana.it) non solo serve squisiti piatti della tradizione toscana presso una terrazza panoramica nel verde da cui si gode una bella vista sulle colline tra Pienza e San Quirico d’Orcia, ma li accompagna anche con pinte di fresca birra artigianale alla spina, tra cui una piacevole “american pale ale” ed una estiva “summer ale”. Il luppolo viene coltivato, raccolto e lavorato direttamente sul posto, dando vita al motto “dalla pianta alla pinta”. La scoperta quasi casuale di questo santuario della birra artigianale nel cuore della Toscana vinicola, mi fa scoprire un piccolo mondo di micro birrifici artigianali locali, vere aziende agricole con propri campi e casolari che sviluppano il processo di produzione e mescita con la stessa cura e qualità dei più celebri mastri vinai: tra gli altri, vorrei menzionare il Birrificio San Quirico di San Quirico d’Orcia (http://www.birrificiosanquirico.it/), il Birrificio Saragiolino di Torrita di Siena (http://www.saragiolino.it/) ed il Birrificio La Stecciaia di Rapolano Terme (http://www.lastecciaia.it).

Birra artigianale made in Tuscany (vikingandre.com)

Birra artigianale made in Tuscany (vikingandre.com)

L’acqua su cui si basa la produzione della birra è un elemento indissolubilmente legato alle Terre di Siena: pur senza grandi fiumi e lontane dal mare, sono attraversate infatti da un’infinità di ruscelli, fiumiciattoli e sorgenti a cui gli etruschi dedicarono vari templi e su cui i romani edificarono i bagni termali. Bagno Vignoni è un piccolissimo quanto antico borgo della Val d’Orcia che deve la sua unicità alle tiepide acque termali che sgorgano da una falda sotterranea di origine vulcanica. Il cuore del paesino è una grande vasca d’acqua termale rettangolare detta “Piazza delle sorgenti”, intorno alla quale troviamo alcuni edifici in stile rustico che ospitano ristorantini, alloggi, bed&breakfast e negozietti di artigianato locale. L’atmosfera che si respira sembra immutata nel tempo e passeggiando intorno alla piazza si può immaginare di incontrare da un momento all’altro Lorenzo il Magnifico, Caterina da Siena o qualche pellegrino in marcia lungo la via Francigena. L’acqua tiepida scorre fino ad una piccola scarpata da cui zampilla prima di formare delle piscine in cui è possibile immergersi per fare il bagno e spalmarsi la pelle di benefici fanghi.

Bagno Vignoni: warm water & mud (vikingandre.com)

Bagno Vignoni: warm water & mud (vikingandre.com)

Dopo una corroborante immersione nelle acque termali di Bagno Vignoni ci concediamo un ultimo pasto a base di prelibatezze toscane presso la Taverna Il Loggiato (http://www.illoggiato.com/), prima di riprendere la via di casa.

"... non sempre serve prendere un aereo per sentirsi in vacanza !" (vikingandre.com)

“… non sempre serve prendere un aereo per sentirsi in vacanza !” (vikingandre.com)

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Paesaggi e sapori d’Italia, tra Marche e Toscana (parte prima)

Marche e Toscana sono la meta ideale per chi cerca una vacanza all’insegna del relax in un contesto delineato da paesaggi panoramici, borghi medievali e gastronomia di qualità. Con in mente questi tre punti fermi partiamo per Jesi all’alba di una giornata di agosto: l’idea è quella di fissare una base tra le colline del maceratese ed una nella campagna senese e poi di vagabondare nei dintorni per una settimana, in totale libertà.

La campagna marchigiana presso Filottrano (vikingandre.com)

La campagna marchigiana presso Filottrano (vikingandre.com)

L’Italia in epoca medievale ha visto nascere la cosiddetta civiltà comunale, cioè un’organizzazione della vita pubblica basata sul governo urbano: la città (e successivamente la Signoria) costituiva la cellula base dell’economia, della politica e della cultura. Marche e Toscana sono ricche di borghi che sembrano catapultati quasi intatti dall’epoca medievale, quando i poteri locali sfidavano quello papale, quello imperiale e quello di altre città rivali.

Treia (vikingandre.com)

Treia (vikingandre.com)

A Jesi beviamo un cappuccino non lontano dalla piazza che diede i natali all’imperatore Federico II nel 1194, fatto storico che confermò di fatto l’ampia autonomia ed il conseguente benessere della cittadina: passeggiando per il centro contornato da possenti mura quattrocentesche, si possono ammirare innumerevoli palazzi, chiese, musei e cortili fioriti.

Jesi (vikingandre.com)

Jesi (vikingandre.com)

Cingoli è un grazioso borgo situato in una splendida posizione panoramica e non a caso tra i locali è conosciuto come “il balcone delle Marche”: la vista che si gode dall’alto della collina su cui è appollaiato spazia dal mare intorno al parco del Conero fino ai monti Sibillini, abbracciando le campagne pennellate del giallo dei girasoli e sullo sfondo le cime del massiccio abruzzese della Maiella. Christian ci fornisce un comodo appartamento ad Avenale, nei pressi di Cingoli, in una palazzina ben ristrutturata con giardino e piccola piscina (http://www.apartamentoslapanoramica.com/).

Cingoli (vikingandre.com)

Cingoli (vikingandre.com)

Nei pressi di Cingoli si scorge un laghetto che spunta tra prati, boschi e dolci colline: l’acqua trasparente di questo bacino artificiale creato da una diga ed il bucolico paesaggio a ridosso degli Appennini lo rende una gradevole meta per picnic, passeggiate e giri in bicicletta.

Lago di Cingoli (vikingandre.com)

Lago di Cingoli (vikingandre.com)

Non distante sorge un altro borgo medievale di grande fascino, Treia: dalla balconata della piazza centrale si può ammirare un magnifico panorama collinare e anche osservare i ragazzi del posto che si sfidano in un’antica disciplina sportiva secentesca, il “pallone col bracciale”, una specie di mix tra tamburello, tennis e pelota spagnola.

Vista panoramica da Treia (vikingandre.com)

Vista panoramica da Treia (vikingandre.com)

Treia (vikingandre.com)

Treia (vikingandre.com)

Per l’ora di cena ci rechiamo tra le colline di Filottrano, precisamente presso Ca’ Vecchia Beerstrot (http://www.beerstrot.it/): il motto del locale è “per chi – come noi – ama la birra artigianale e il buon cibo”. In effetti, la scelta di birre artigianali alla spina ed in bottiglia è eccellente (consiglio l’american pale ale MC77 Bastogne, la ipa leggera Emiliano Tropicale e la golden Mukkeller PSE) ed il cibo molto gradevole (gustosi gli hamburger e le costine al forno): ma è la location che rende il Beerstrot un locale davvero imperdibile, con i tavoli distribuiti in uno spazio aperto circondato da campi di girasole e siepi di rosmarino profumato. Osservare il sole che tramonta dietro il profilo delle colline marchigiane ed i borghi medievali, sorseggiando una pinta di squisita birra artigianale, è davvero un’esperienza unica.

Tramonto sul Beerstrot (vikingandre.com)

Tramonto tra le siepi di rosmarino del Beerstrot (vikingandre.com)

Così come unica è l’atmosfera che si respira a Recanati, il borgo famoso per aver dato i natali al poeta Giacomo Leopardi. Alzi la mano chi non ha imprecato almeno una volta quando a scuola gli insegnanti ci facevano studiare a memoria “L’Infinito” , “A Silvia” ed “Il sabato del villaggio”; passeggiando per le strade di Recanati, ammirando il panorama dalle sue terrazze e girovagando nei pressi della casa del giovane Giacomo, mi ritrovo ad immaginare i pensieri e le riflessioni che hanno indotto il poeta a scrivere i suoi versi e… “il naufragar m’ è dolce in questo mar” !

Vista panoramica da Recanati (vikingandre.com)

Vista panoramica da Recanati (vikingandre.com)

Ed il mare del Conero non è troppo distante: quando il sole da rovente diventa tiepido e comincia ad allungare le ombre dei bagnanti che si allontanano dai sassi bianchi della spiaggia di Portonovo, è segno che è giunta l’ora di un bel bagno nelle acque limpide vegliate dai faraglioni delle “due sorelle”.

Portonovo (vikingandre.com)

Portonovo (vikingandre.com)

Sulla via del ritorno alla nostra dimora nell’entroterra ci fermiamo a cenare in uno di quei ristoranti che apparentemente giudicheresti insignificanti, ma che poi si rivelano di grande soddisfazione per il palato. L’Osteria del Moro di Potenza Picena (http://www.osteriadelmoro.it/) ci accoglie sotto un fitto pergolato di uva e ci serve eccellenti ed abbondanti piatti di cucina casalinga, a partire dalla crescia (una sorta di deliziosa piadina locale), passando per gli strozzapreti al ragù e concludendo con saporiti arrosticini. Non c’è pericolo, in Italia a livello di gastronomia si casca sempre in piedi ed è sorprendente la varietà e la qualità della cucina locale marchigiana.

Crescia marchigiana (vikingandre.com)

Crescia marchigiana (vikingandre.com)

E personalmente ho trovato una piacevole sorpresa anche la visita di Macerata. Uno pensa a Macerata e cosa gli viene in mente ? A me onestamente, prima di visitarla, nulla. Solo un nome di un qualsiasi capoluogo di provincia italiana. E invece si rivela una piacevolissima cittadina: gironzoliamo tra i vicoli e le piazzette del centro storico, all’ombra di palazzi, mura cinquecentesche, chiese e cogliamo subito un ambiente vivace grazie alla presenza dell’università e di innumerevoli localini, osterie, negozietti, teatri (tra cui l’incredibile Sferisterio), ristoranti, cinema. Tutto contribuisce a ravvivare le stradine di una Macerata che sembra ancora indecisa se mantenere la sua indole provinciale e agricola o se abbracciare appieno il ruolo di centro culturale del territorio.

Montelupone (vikingandre.com)

Montelupone (vikingandre.com)

Territorio che ci apprestiamo a salutare non prima di un’ultima tappa, in uno dei borghi di origine medievale tra i più eleganti e meglio conservati di tutte le Marche: Montelupone si presenta sonnacchioso in questo pomeriggio di agosto e ci avvolge con la sua atmosfera d’altri tempi, alimentata dalla vista sulle colline coltivate che lo circondano, dalle mura con le porte merlettate che lo delimitano e dalle viuzze che si snodano all’ombra di case ed edifici in mattoni rustici. La piazzetta nel cuore del paese è davvero caratteristica, dominata dal palazzo del podestà con i suoi ampi portici e la sua tipica torre con orologio: sembra di trovarsi in un poema di Giacomo Leopardi, quando “già tutta l’aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre giú da’ colli e da’ tetti, al biancheggiar della recente luna.

Le colline delle Marche (vikingandre.com)

Torna azzurro il sereno sulle colline delle Marche (vikingandre.com)

(un caloroso GRAZIE al Dr Claudio per i preziosi consigli culturali e gastronomici !)

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Tired of London, tired of life – part IV: la Londra insolita

Londra è una fresca spremuta di mondo da sorseggiare quando si ha sete di internazionalità, novità e multiculturalità. Con un marcato retrogusto britannico, of course. A fianco dei monumenti, dei palazzi, dei parchi, dei musei, delle strade e degli scorci più noti ed iconici, esiste un’infinità di attrazioni, di locali, di quartieri e di angoli poco conosciuti alla cui scoperta è possibile dedicare innumerevoli viaggi e week-end, senza rischio di annoiarsi o di esaurire il repertorio…

Welcome to London (vikingandre.com)

Welcome to London (vikingandre.com)

Molti visitatori raggiungono la capitale inglese con i voli low-cost che atterrano a Stansted e poi tramite il treno Stansted Express che termina la propria corsa alla stazione di Liverpool Street. La maggioranza si infila poi direttamente nelle viscere urbane con la metropolitana: i dintorni della stazione sono invece ricchi di opportunità per chi ha voglia di tuffarsi subito nella vita in superficie della metropoli e di scoprirne qualche lato insolito. La zona è stata profondamente ristrutturata e ha assunto un carattere molto “business”, con alti palazzi in acciaio e vetro, sede di uffici e aziende. Gli inglesi amano però mantenere le proprie tradizioni e lo stile moderno spesso si sposa con l’architettura originaria, come per esempio in Devonshire Square:  originariamente consisteva nei magazzini di stoccaggio della East India Company, da cui passavano le preziose stoffe provenienti dal golfo del Bengala, oggi invece ospita uffici, ristoranti, bar, palestre e attività culturali in uno spazio aperto, ma riparato da eventuali intemperie e caratterizzato stilisticamente dai tipici mattoni  delle “warehouse” del 1700. Dato che a Londra non si può fare a meno prima o poi di assaggiare una “full English breakfast” con uova strapazzate, pancetta e fagioli al sugo oppure una porzione gigante di “fish & chips” abbondantemente fritta, consiglio di dare tregua allo stomaco provando qui i cibi freschi e salutari della catena Pod.

Alla base del cetriolone (vikingandre.com)

Alla base del cetriolone (vikingandre.com)

La presenza di numerosi grattacieli in questa area stretta tra la City e Shoreditch ha visto il diffondersi di vari ristoranti “panoramici”, cioè situati ai piani alti dei palazzi stessi: a qualsiasi ora, la vista di Londra dall’alto è impagabile e disponendo di un buon budget nonché prenotando con un certo anticipo, da Sushisamba o da Duck&Waffles l’esperienza culinaria e sensoriale non tradirà le aspettative. Il mio grattacielo “preferito” si trova a sud di Liverpool Street, in direzione del Tamigi, precisamente al numero 20 di Fenchurch Street: The Sky Garden è un vero e proprio giardino pensile situato al 35° piano del “walkie-talkie”, come i londinesi chiamano questo palazzo; lo spazio è aperto al pubblico e, a differenza di altri viewpoint come The Shard, è gratuito, si può passeggiare liberamente tra le piante che formano il giardino su vari livelli oppure scattare qualche fotografia dalla terrazza all’aperto. Diversi locali consentono di consumare colazione, pranzo o cena ammirando la capitale dall’alto, ho particolarmente apprezzato la continental breakfast da 15£ presso la Darwin Brasserie.

Cappuccino con vista (vikingandre.com)

Cappuccino con vista (vikingandre.com)

Chi preferisce nutrirsi con i piedi ben saldi al suolo anziché a 160 metri di altezza, non distante da Fenchurch Street si trova il Leadenhall Market, un mercatino coperto in stile vittoriano, molto elegante e con negozi e locali moderni, all’ombra di The Gherkin, cioè  “il cetriolo”, il futuristico grattacielo che caratterizza lo skyline di questa porzione di città. Per la sua atmosfera d’altri tempi, a Leadenhall Market sono state filmate alcune scene di Harry Potter, specificamente quelle in esterno di Diagon Alley. Volendosi gustare un ambiente meno “immaginario”, bisogna spostarsi verso nord est in direzione di altri due mercati tipici che resistono alla proliferazione dei contemporanei grattacieli: Old Spitafields è un grande ed antico mercato coperto (risale a circa 350 anni fa) dove abbondano bancarelle di vestiti vintage e di dischi in vinile, negozi di oggetti d’arte o di bigiotteria ed un’infinità di bar e ristoranti; Brick Lane Market invece è il regno dello street food di origine asiatica, vi si possono assaggiare squisiti “samosa” indiani o saporiti “pakora” pakistani, così come girovagare tra le bancarelle di cianfrusaglie dei mercatini delle pulci.

Leadenhall Market o Diagon Alley ?? (vikingandre.com)

Leadenhall Market o Diagon Alley ?? (vikingandre.com)

Coloro che frequentano Londra per la prima volta oppure che ci tornano saltuariamente, non mancheranno di visitare il Big Ben, Trafalgar Square, Piccadilly Circus ed Oxford Street… qui la presenza turistica quotidiana è enorme, qualsiasi sia l’ora del giorno o il periodo dell’anno: nessuno resiste ad un “selfie” con il campanile di Westminster, la statuetta di Eros oppure il generale Nelson sullo sfondo…. Ma allargando un po’ l’orizzonte del proprio sguardo, anche intorno alle attrazioni londinesi più popolari è possibile scoprire delle “chicche” molto interessanti.

La Piazza del Parlamento è delimitata da una grande trafficata strada a tre corsie che non è agevole attraversare, ma una volta riusciti ci si trova in un bel prato, Parliament Square Garden, bordato da una serie di statue: tra le varie figure storiche, riconosciamo Nelson Mandela, il Mahatma Gandhi ed il suo vecchio avversario Winston Churchill, quest’ultimo con lo sguardo rivolto al Big Ben e agli edifici in stile gotico delle Houses of Parliament, quasi ad indicare… un ottimo punto per scattare fotografie !

Winston's view (vikingandre.com)

Winston’s view (vikingandre.com)

Il percorso classico attraversa Trafalgar Square, magari con un giro alla National Gallery, supera Leicester Square con i suoi cinema e teatri e giunge a Piccadilly Circus: mezzo miglio solamente da percorrere a piedi, ma così fitto di attrazioni e così denso di folla che in genere si arriva stremati davanti ai neon di Piccadilly… è qui che arriva in soccorso un piccolo pub, situato giusto alle spalle del Circus, al numero 15 di Denman Street: The Queen’s Head non solo serve del tipico “pub food” come l’immancabile fish & chips, ma spilla anche la birra TROOPER, una delle mie “ale” preferite, assolutamente da non mancare.

Trooper alla spina, premium British cask ale (vikingandre.com)

Trooper alla spina, premium British cask ale (vikingandre.com)

Una volta rifocillati e rinvigoriti da un paio di pinte di golden ale, si può risalire Regent Street, soffermarsi nella celebre Carnaby Street (che ora vanta numerosi negozi alla moda e, poco distante, un ottimo ristorante indiano, Masala Zone… non ci sono più, come nei primi anni Novanta, i punk con la cresta colorata ed i negozi di magliette metal in muffosi piani interrati….) e raggiungere i templi dello shopping a buon mercato di Oxford Street. Non occorre menzionare le centinaia di negozi che si affacciano sulla via commerciale per eccellenza della capitale, ancora una volta vorrei dare sollievo a coloro che dopo una sessione di shopping intensissimo cerchino un momento di relax per ripristinare le funzioni vitali: quando ci si trova a ovest di Oxford Circus, in direzione di Marble Arch, conviene fermarsi a St. Christopher’s Place, una piazzetta relativamente tranquilla dai caratteristici colori lilla, dove bersi un tè all’aperto accompagnato da qualche cupcake.

St. Christopher's Place (vikingandre.com)

St. Christopher’s Place (vikingandre.com)

Invece se ci si trova a est di Oxford Circus, in direzione di Tottenham Court, non può mancare una tappa al bar Brewdog di Soho: chi apprezza la birra conoscerà certamente il mitico birrificio scozzese Brewdog e la sua bevanda divina, la PUNK IPA. Qui, cioè in una delle 5 o 6 location londinesi, si possono gustare ben venti diverse birre alla spina rigorosamente artigianali (magari non tutte insieme!!) ed accompagnarle con hamburger, alette di pollo e altri stuzzichini ben fritti e bisunti.

Pint of Punk IPA @ Brewdog Soho (vikingandre.com)

Pint of Punk IPA @ Brewdog Soho (vikingandre.com)

Chi visita Londra con la famiglia, specialmente con figli piccoli o pre-adolescenti, prima o poi durante il soggiorno dovrà effettuare una tappa nei luoghi legati alla figura di Harry Potter, il maghetto nato dalla fantasia e dalla penna della scrittrice scozzese J.K. Rowling. Senza necessariamente dedicare un’intera giornata alla visita dei pur entusiasmanti (e costosetti) Warner Bros Studios alla periferia della città, è possibile soddisfare la voglia di magia dei più piccoli con una sosta alla stazione ferroviaria Kings Cross: qui ci si può fare immortalare nell’atto di attraversare il muro che conduce al celebre “binario 9 e ¾” e dedicarsi allo shopping di gadget provenienti da Hogwarts nel negozio dedicato, ovviamente denominato Platform 9 ¾.

Negozio per fan di Harry Potter (vikingandre.com)

Negozio per fan di Harry Potter (vikingandre.com)

Nei pressi della stazione di Kings Cross è stato attuato uno di quei progetti di riqualificazione urbana che rendono Londra una realtà sempre dinamica ed in evoluzione: nei terreni dismessi intorno alla rete ferroviaria sorgono ora spazi all’aperto, piazze, bar e locali. In un vecchio magazzino vittoriano affacciato su Granary Square sorge il ristorante Grain Store, caratterizzato da un mix di tradizioni culinarie servite in un ambiente piacevole con archi in pietra e classici mattoncini a vista: la location ideale per sfamare l’appetito e far giocare i bambini tra gli spruzzi delle fontane della piazza antistante (meglio se il tempo è soleggiato…).

Grain Store Restaurant @ Granary Square (web)

Grain Store Restaurant @ Granary Square (web)

Dopo questa carrellata di luoghi più o meno insoliti da vivere a Londra, concludo con un grande classico: visitare uno stadio inglese. La capitale concentra nella sua municipalità numerosi club di Premier League e di Championship, oltre ad ospitare la nazionale di calcio nel “tempio” di Wembley. La gran parte degli impianti si caratterizza per l’estrema modernità o per l’affascinante tradizione: quindi a seconda dei propri gusti è possibile assistere ad una partita nel confort delle comode  poltroncine dell’Emirates Stadium dell’Arsenal oppure nell’ambiente rustico del The Den (“la tana”) del Millwall. Agli appassionati di calcio e di stadi inglesi, consiglio il libro di Massimo Marianella “Dove ti porta il calcio” (ed. Mondadori), una approfondita guida sugli impianti calcistici d’Europa in cui vengono menzionati anche quelli meno conosciuti, ma altrettanto affascinanti, di Londra: Loftus Road del Queens Park Rangers, Vicarage Road del Waford, The Valley del Charlton e Sulhurst Park del Crystal Palace, per citarne qualcuno. Durante la mia ultima visita in città ho avuto l’opportunità di assistere al derby tra Chelsea e West Ham a Stamford Bridge, conclusosi sul punteggio di  2 a 2 dopo innumerevoli emozioni e ribaltamenti  di campo.

Chelsea vs West Ham 2-2 @ Stamford Bridge (vikingandre.com)

Chelsea vs West Ham 2-2 @ Stamford Bridge (vikingandre.com)

“We’ve got Payet, Dimitri Payet ! I just don’t think you understand. He’s Super Slavs man, he’s better than Zidane. We’ve got Dimtri Payet !” (vikingandre.com)

“We’ve got Payet, Dimitri Payet ! I just don’t think you understand. He’s Super Slavs man, he’s better than Zidane. We’ve got Dimtri Payet !” (vikingandre.com)

E’ impossibile stancarsi di Londra e come dice l’orsetto Paddington “in London everyone is different and that means anyone can fit in”.

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Oltre il velo: le meraviglie della Persia

Mia mamma mi ha insegnato fin da piccolo che non basta guardare una pietanza per affermare che non è buona, occorre assaggiarla. Questa frase mi è tornata in mente sul volo Mahan Air che mi riconduceva a Milano Malpensa da Tehran, dopo un breve soggiorno in Iran. Non è facile pensare a questo Paese con mente sgombra da preconcetti, il mosaico mediorientale negli ultimi anni si è talmente frammentato ed incendiato che solo gli esperti di politica internazionale sanno ancora distinguere chi è amico di chi, quale parte sostiene un’altra, quale popolo è ostile o alleato di un altro, quali ragioni economiche conducono a certe azioni. In generale, pensando al Medio Oriente si ha una sensazione di insicurezza, incertezza e pericolosità, spesso alimentata dai media che veicolano immagini cruente ed inquietanti. C’è poi l’aspetto religioso, l’idea diffusa e un po’ superficiale, quasi manichea, secondo cui il mondo europeo cristiano sia sotto assedio, in guerra con quello arabo musulmano, senza valutare le infinite sfaccettature di cosa significhi realmente sentirsi cristiano, musulmano, laico, arabo o europeo. Tornando dall’Iran mi sono reso conto di quanto sia diversa la realtà di questo Paese rispetto al confuso immaginario che mi si era formato nella mente prima di metterci piede: una realtà molto più interessante, complessa e comunque tranquillizzante.

Benvenuti in Persia (Shiraz, Moschea delle Rose - vikingandre.com)

Benvenuti in Persia (Shiraz, Moschea delle Rose – vikingandre.com)

Il primo aspetto che mi ha colpito dell’Iran è l’enorme ospitalità del suo popolo. Gli iraniani conservano nel loro dna un’antica ospitalità e una capacità di relazionarsi con gli altri che forse derivano dal trovarsi da secoli nel cuore geografico di tutte le rotte, le vie di comunicazione, i commerci, gli scambi culturali tra Occidente e Oriente, tra Sud e Nord del mondo.

Studentesse di Tehran (vikingandre.com)

Studentesse di Tehran (vikingandre.com)

Non ho mai colto tensione o insicurezza nel passeggiare in città, nessun senso di ostilità: anzi, non è raro che i locali ti si rivolgano con una qualsiasi scusa e comincino a conversare in inglese, ponendo domande, scherzando anche su temi politici-religiosi, raccontando di sé e curiosando nelle idee dell’interlocutore. La gran parte della gente è giovane, quindi spigliata, aperta, ma anche molto cordiale nei confronti degli stranieri, molto attenta a far sentire gli ospiti a proprio agio. Lo fanno in modo spontaneo e genuino, dal taxista al cameriere, dalla guida al concierge di albergo, dal collega di lavoro al guardiano del museo: non si aspettano nulla in cambio, sono proprio gentilezza e ospitalità innate.

L’Iran non è un Paese arabo. Un altro aspetto che si coglie immediatamente arrivando sul posto e che invece dall’Europa non si percepisce facilmente è che l’Iran ha una sua specificità culturale, storica e religiosa davvero unica nel contesto mediorientale, che lo differenzia per molti aspetti dai Paesi arabi. La religione ufficiale è quella islamica, ma non segue la corrente comunemente diffusa nel mondo, quella sunnita: l’Iran infatti è sciita, seppure non mi sembra che la gente comune sappia sciorinare con precisione tutte le differenze tra le due interpretazioni dell’Islam. L’alfabeto è per gran parte lo stesso degli arabi, ma gli iraniani parlano il “farsi” e si sentono orgogliosamente persiani, cioè figli di quella Persia che vanta una storia millenaria e che riempie di testimonianze decine di sale nel museo nazionale Iranbastan di Tehran. In effetti qui si è fatta la Storia, quella con la S maiuscola che ha formato l’identità della civiltà umana, dai tempi della “mezzaluna fertile” e della Mesopotamia di scolastica reminiscenza, passando per il dominio di Ciro il Grande e Alessandro Magno, attraversando invasioni arabe, turche e mongole, subendo influenze europee ai tempi dello scià e arrivando ai nostri giorni dopo una sorprendente rivoluzione religiosa. La Persia odierna si chiama Repubblica Islamica dell’Iran e si sta affacciando dopo anni di embargo ed isolamento sullo scenario commerciale, sociale e politico internazionale, con tutte le sue contraddizioni, ma anche con la sua innegabile potenza economica e la sua forte identità culturale.

La Moschea di Shiraz (vikingandre.com)

La Moschea di Shiraz (vikingandre.com)

Ad una cinquantina di chilometri da Shiraz, nel sud del Paese, si ergono due meraviglie che sono il simbolo di questa identità storica e culturale. Naqsh-i Rustam, meglio conosciuta come Necropolis, è una grande formazione rocciosa in cui sono state scolpite le tombe di quattro re, Dario I, Dario II, Serse e Artaserse. Qui, nella “città dei morti” si percepisce quanto la Storia in Iran sia in realtà viva e rimango a bocca aperta e col naso all’insù ad ammirare i raggi del tiepido sole mattutino che scaldano la roccia incisa nei secoli dalle sapienti mani degli scultori elamiti, achemenidi e sassanidi.

Necropolis (vikingandre.com)

Necropolis (vikingandre.com)

Poco distante, sorge un’altra meraviglia che mi fa sentire microscopico: la cittadella archeologica di Persepolis. Qui la mente prende il volo, mi immagino le vicende incise sui lastroni di pietra, tutti quegli uomini barbuti in processione da ogni angolo dell’Asia per omaggiare re Dario. E’ inverno e tra le colonne imponenti non ci sono turisti, il cielo blu intenso e l’aria fredda fanno da scenario alla mia passeggiata tra grifoni di roccia e leoni intarsiati che combattono con i tori. Mi soffermo a fantasticare sullo sfarzo dei palazzi reali, sui tesori, sulle scalinate percorse da funzionari indaffarati e sui festeggiamenti del  Nowruz, il capodanno iraniano, tuttora sentitissimo e scopo, si pensa, della costruzione del sito di Persepolis.

Persepolis (vikingandre.com)

Persepolis (vikingandre.com)

Un altro aspetto che colpisce il visitatore in Iran è… Tehran ! Uno si immagina la capitale iraniana come una megalopoli infernale imprigionata nella morsa del traffico caotico, dell’inquinamento, della marea di gente, del clima insopportabile, delle colate di cemento. In effetti non esiste ancora una vera e propria cultura dell’uso dei mezzi pubblici e dopo anni di embargo le strade sono piene di vecchie Peugeot scarburate che emettono fumi non proprio salutari. Ma Tehran credo meriti comunque qualche giorno di visita. Il traffico è costantemente congestionato, ma relativamente ordinato, sono stato in ingorghi stradali decisamente più inestricabili in qualsiasi cittadina indiana: i trasferimenti sono lenti perché sembra costantemente di essere in tangenziale a Milano alle 18, ma ci si abitua abbastanza velocemente adattando i propri ritmi, evitando di infittire troppo la propria agenda di appuntamenti. E poi qualche timido passo avanti è in corso: linee di bus, linee della metropolitana, varie piste ciclabili… sicuramente con la fine dell’embargo la città troverà le risorse per affrontare questa problematica e soprattutto per cambiare la mentalità di voler ostentare a tutti i costi la propria automobile. Una Tehran con meno auto sarebbe un gioiellino: è sorprendente metter piede nel deserto piatto dell’aeroporto internazionale dedicato (come miliardi di altre opere!) all’Imam Khomeini, percorrere una sessantina di chilometri e trovarsi in una città la cui altitudine varia tra i 1100 metri sul livello del mare nella parte sud, i 1200 metri nel centro e addirittura i 1700 metri nella sua parte settentrionale, alle pendici dei monti Elburz. Le montagne fanno da sfondo al paesaggio urbano della capitale e nel periodo invernale sono pennellate del colore bianco della neve. I quartieri settentrionali sono quelli più benestanti e godono di scorci panoramici notevoli; consiglio una visita al complesso del Palazzo di Saadabad, residenza degli scià Qajari prima della Rivoluzione e ora adibito a museo: è davvero piacevole passeggiare nei giardini alberati, ammirando le montagne, scambiando due parole con gli studenti in visita.

Tehran

In una società sostanzialmente priva di luoghi di ritrovo soprattutto per i giovani, per divertirsi e stare insieme, i parchi urbani assumono anche la funzione di luoghi di aggregazione: Tehran ne è piena, sono aree verdi ben tenute che brulicano nella bella stagione di giovani, bambini, famiglie che si ritrovano, fanno picnic e spesso improvvisano concertini di musica dal vivo.

La ricchezza culturale della capitale poi è impressionante: non si contano i musei, dal già citato Museo Nazionale con la sua raccolta di reperti di ogni era storica al Palazzo Golestan con le sue sfarzose sale e le sue raffinate decorazioni, dal Museo dei Tappeti, arte nazionale per eccellenza  a quello dei Gioielli, per citare i più famosi e frequentati. Quest’ultimo è davvero unico, in quanto si trova nei sotterranei della banca nazionale iraniana e in un caveau raccoglie una quantità impressionante di monili, pietre preziose, corone, spade decorate e oggettistica varia tra cui un intero trono reale e un curioso mappamondo tutto ricoperto di gemme colorate. Tehran è poi il cuore pulsante della nazione, il centro dei commerci, della politica e anche della ricchezza: anni di embargo non hanno piegato il Paese, anzi gli hanno insegnato ad “arrangiarsi” con il proprio enorme patrimonio di risorse naturali interne. Ora che le sanzioni sono terminate, Tehran guida il Paese sul palcoscenico internazionale e diventa il motore di tutte le spinte verso il cambiamento, il progresso e le riforme.

Museo Nazionale di Tehran (vikingandre.com)

Museo Nazionale di Tehran (vikingandre.com)

Perché non bisogna dimenticarselo: l’Iran è una Repubblica Islamica, governata da una dittatura religiosa. E’ uno dei nove Paesi al mondo retti da una teocrazia, tutti i peccati sono reati, il capo dello Stato è il leader religioso, i principi giuridici sono fondati sulle norme morali religiose. Si tratta di un aspetto che non mi lascia indifferente, un tema che genera sensazioni e pensieri contrastanti nel viaggiatore occidentale, abituato a vivere in Stati laici e democratici: di primo acchito un certo fastidio, talvolta anche un senso di presunta superiorità culturale, ma anche -personalmente- una certa curiosità di capire come la gente comune viva questa teocrazia, come concretamente i principi religiosi influiscano sulla vita quotidiana della gente.

Nasir al-Mulk (vikingandre.com)

Nasir al-Mulk (vikingandre.com)

In base alla mia esperienza personale, ho notato uno scollamento tra l’establishment politico-religioso del Paese e le persone comuni, soprattutto i giovani di Tehran con cui ho avuto modo di scambiare qualche parola. Ci sono le rigide regole comportamentali dei mullah e degli imam, c’è la polizia morale agli angoli delle strade, c’è il velo per le donne da tenere sul capo,  Facebook e gli alcolici sono vietati e c’è uno Stato che nasconde le nudità delle proprie opere d’arte per non “imbarazzare” il presidente iraniano…  contemporaneamente ci sono ragazzi e ragazze che timidamente si tengono la mano per strada o si sfiorano le guance per salutarsi, mal che vada si rischia una multa… spesso il velo scivola lasciando libero un ciuffo di capelli vezzosamente biondo, le forme delle donne sono coperte, ma il volto è curatissimo, il kajal naturale esalta la forma degli occhi ed i chirurghi plastici di Shiraz hanno l’agenda fitta di appuntamenti per modellare all’insù i nasini ritenuti troppo… “mediorientali”. Basta un software popolarissimo per aggirare i filtri su internet e collegarsi a Facebook, ai siti stranieri e alle radio che diffondono in streaming la “sconveniente” musica occidentale. Non esistono locali notturni, ritrovi, bar, discoteche, ma nei ristoranti non manca mai la musica dal vivo e la gente di ogni età, non potendo ballare in pubblico, si fa trascinare in allegri canti e battiti di mani. In privato poi è tutta un’altra storia… l’importante è non disturbare gli anziani vicini bacchettoni, per il resto è tutto uno sfoggio di minigonne, tacchi alti, braccia nude, capelli ossigenati, musica e spesso qualche alcolico distillato clandestinamente. Insomma, con tutte le sue contraddizioni e le sue serie problematiche (che spaziano dai diritti umani alla pena di morte), la mia sensazione è quella di un Paese in fermento, di una pentola in ebollizione pronta a scoperchiarsi sotto la spinta di una vitalità e di un ottimismo tipicamente giovanili. Soprattutto dopo la fine delle sanzioni internazionali, gran parte della gente sembra vedere il futuro come un’opportunità di progresso e miglioramento, si colgono una speranza nell’avvenire e una fiducia nella propria identità nazionale che da noi sembrano smarrite.

Stavo sorseggiando in compagnia un ottimo tè locale sgranocchiando pistacchi quando è giunta la notizia dei nudi coperti ai musei capitolini. Grandi risate. Mi si rivolge una ragazza: “Ma cosa siete disposti a fare voi italiani per qualche milione di euro in contratti commerciali, eh !?!?! Rinnegate pure la vostra cultura ??”.  E a questo punto l’imbarazzato sono io… “Però, buoni questi pistacchietti !!”…

Pistacchi al bazar di Tehran (vikingandre.com)

Pistacchi al bazar di Tehran (vikingandre.com)

Special thanks go to Ms Sepideh (and all @ Arg-e-Jadid), Ms Lara (and all @ Mahan Air), Mr Arash (great guide & musician) and to all my travel mates.

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Laos: istruzioni per l’uso

Il viaggiatore occidentale, per quanto culturalmente preparato e mentalmente aperto, tende a filtrare la realtà del luogo in cui si trova attraverso i concetti, i valori, gli schemi interpretativi  e le prospettive che fin da piccolo gli sono stati inculcati dalla società di provenienza. E’ un fatto del tutto normale, ma per riuscire ad entrare in sintonia con gli abitanti del posto che si sta visitando e comprendere la logica dei loro comportamenti è necessario contestualizzare al massimo l’esperienza che si sta vivendo, nell’ambito della cultura e della mentalità locali. Specialmente se tale posto è in Asia. E ancora di più se nel mosaico asiatico stiamo parlando di Laos.

Il Laos geograficamente, culturalmente e storicamente è sempre stato isolato nel cuore della penisola indocinese e per questo i suoi abitanti hanno sviluppato nei secoli comportamenti e schemi sociali peculiari, spesso completamente diversi da quelli occidentali:  non è raro quindi per noi viaggiatori europei incappare in qualche situazione imbarazzante oppure apparentemente surreale quando si ha a che fare con i Lao. Senza pretesa di esaustività e con tutti i limiti di un discorso generalizzato, ecco un piccolo elenco di comportamenti e strumenti interpretativi che è consigliabile far propri quando si è ospiti di questo magnifico Paese e dei suoi abitanti.

“NON IMPORTA”

Il Buddismo sostiene che l’origine del dolore umano sia rappresentato dal desiderio di possedere cose materiali (intese come oggetti, persone, momenti esistenziali), le quali inevitabilmente non durano in eterno e quindi provocano sofferenza nell’istante del distacco, della scomparsa, del deperimento. La via per la felicità ed il modo più efficace per non soffrire è quindi non attaccarsi troppo alle cose, alle persone, ai fatti piacevoli o spiacevoli che capitano durante la vita. A questo concetto complesso, qui estremamente sintetizzato, si aggiunge un altro caposaldo del Buddismo: la credenza secondo cui il cosmo è il risultato di una concatenazione di eventi che a loro volta sono causa ed effetto di altrettanti eventi. Come si traducono questi concetti nel comportamento quotidiano del laotiano medio ? Mentre noi occidentali siamo abituati ad affrontare un problema, nell’universo buddista e quindi nella mentalità del laotiano c’è l’accettazione del problema. Pertanto, di fronte a qualcosa che va storto il laotiano reagisce con la frase che sintetizza l’essenza di un intero popolo: “bor penn yang”, cioè “non importa”.

Il turista occidentale che ordina un piatto al ristorantino locale di Vientiane e se ne vede recapitare un altro totalmente diverso oppure che si infila sotto la doccia nell’alberghetto di Luang Prabang e si accorge che gocciola solamente acqua fredda, inevitabilmente affronta di petto la questione e pretende che il problema sia risolto all’istante. Non c’è da stupirsi che il ristoratore o l’albergatore laotiano, di fronte alle lamentele del cliente occidentale, abbozzi un sorriso imbarazzato senza genuinamente comprendere quale sia il problema. Bor penn yang, nel piatto c’è comunque ottimo cibo, la doccia si può fare anche più tardi…

“NON ALZARE LA VOCE”

Sorrisi intervallati da “yes, yes”, senza che l’interlocutore laotiano muova un dito per provvedere alla soluzione del problema inducono l’ospite occidentale a pensare: “questo mi sta prendendo in giro!”. Il secondo errore dopo la cattiva interpretazione dei sorrisetti è alzare la voce. Nella società orientale alzare il tono della voce ed in generale manifestare apertamente le proprie emozioni è un comportamento considerato molto maleducato e fonte di imbarazzo. Non solo per chi lo subisce, ma soprattutto per chi lo attua: il laotiano si vergogna per un farang (letteralmente “francese” e, per pigrizia mentale o per proprietà transitiva, qualsiasi “straniero”) che sbraita e diventa tutto paonazzo e sudato, si paralizza, va in confusione ed il risultato è peggiore della iniziale lamentela. Inoltre nella vita di ciascuno in Laos c’è una forte componente animista e superstiziosa: chi grida attira gli spiriti cattivi nel luogo in cui avviene l’alterco, che qui restano anche dopo che il litigante se ne è andato. Ogni evento negativo successivo al litigio verrà attribuito automaticamente a colui che ha alzato la voce, che sia un lutto improvviso o un guasto alla tv che stava trasmettendo l’amata telenovela tailandese.

“NON TOCCARE”

Alzare la voce è quindi una manifestazione di rabbia che non fa parte del mondo laotiano, ma non è l’unico sentimento che i locali tendono ad esprimere in modo discreto. Anche la gioia, come la tristezza, è in genere un’emozione privata, intima: il contatto fisico è inusuale, sia esso un abbraccio tra amici, tenersi per mano tra fidanzati o baciarsi tra parenti. Da noi è normale incontrare qualcuno che si conosce e stringergli la mano o dargli una pacca sulle spalle oppure sfiorare le sue guance con un bacio. In Laos solo le persone molto intime hanno contatti fisici, il modo per salutarsi è quello di congiungere le mani davanti al petto, come per pregare, ed abbassare leggermente il capo. Più sono alte le mani giunte e maggiore è il rispetto per chi si saluta, fino alla fronte per i monaci e al capo per le statue del Buddha. Lo straniero che saluta la cameriera dell’albergo con un inchino e le mani giunte sopra la testa è come se dicesse “Buongiorno sua Santità”, suscitando quindi una certa perplessità. I monaci loro sì che sono considerati quasi divinità, a cui rivolgere il massimo rispetto: è vietato toccarli, le donne addirittura non possono avvicinarsi ad un monaco e se sul bus c’è un solo posto libero a fianco di un sacerdote con la tunica color zafferano piuttosto sta in piedi oppure chiede ad un altro uomo di lasciare un posto libero sedendosi lui di fianco al monaco. La testa è considerata la parte più sacra del corpo umano, mentre i piedi quella meno nobile: toccare la testa a qualcuno è un gesto maleducato ed estremamente offensivo in caso di un monaco, così come non è carino puntare i piedi per indicare qualcuno. Quando si visita il Laos non consiglio di scompigliare i capelli ad un bambino di qualche villaggio rurale, seppur con intenzioni affettuose: suscitereste imbarazzo e scapperebbe via. Ma senza piangere: non ho mai visto un bambino laotiano piangere. Non ho mai visto una carrozzina, un succhiotto, un passeggino in Laos: non so se esista correlazione, ma sembra che i bambini laotiani non piangano quasi mai.

“ATTENZIONE A NON PRENDERE IL SOLE”

Non essendoci sbocchi al mare i bambini laotiani amano giocare e nuotare nei fiumi e tra le cascate, lanciandosi in acrobazie tra sassi e scogli in totale libertà, senza particolare supervisione degli adulti. I Lao manifestano spesso una certa dose di pudicizia e non amano mostrare le proprie nudità. Gli uomini credo che un po’ si vergognino della pancetta da birra, anzi da BeerLao, l’amatissima bevanda nazionale servita rigorosamente con il ghiaccio nel bicchiere. Le donne invece, come in gran parte dell’Oriente, fanno il bagno vestite e in generale hanno un vero e proprio culto per la pelle bianca. In un Paese baciato dal sole tutto l’anno, spogliarsi, prendere il sole ed abbronzarsi è una pratica sconosciuta: avere la pelle abbronzata non è un canone di bellezza locale, anzi se qualche ragazza o donna deve muoversi sotto il sole, per esempio durante uno spostamento in motorino, copre ogni lembo di pelle con calze (senza rinunciare alle infradito d’ordinanza), pantaloni lunghi, felpa a maniche lunghe con cappuccio, spesso guanti e mascherina chirurgica sul volto. La mascherina medica da noi si vede solo addosso a qualche chirurgo o agli specialisti del reparto investigazioni scientifiche: in Oriente invece è un “capo d’abbigliamento” piuttosto diffuso, in certi casi per non contaminare il prossimo quando si ha il raffreddore, spesso per non respirare polvere lungo le strade sterrate, spessissimo per evitare che i raggi del sole possano imporporare o addirittura abbronzare le guance delle donne. Il viaggiatore e le viaggiatrici sensibili e rispettosi eviteranno quindi di indossare capi sbracciati o troppo scollati, oppure mini bikini per fare il bagno alle cascate di Kuang Si nei pressi di Luang Prabang.

“TOGLIERE LE SCARPE”

Ai bordi delle piscine naturali di acqua verde che compongono le splendide cascate di Kuang Si sono allineate decine di ciabatte infradito. E’ la calzatura più diffusa e comune in Laos: costa poco, non fa sudare il piede e si può mettere/togliere con facilità. Una consuetudine che accomuna il Laos e, per esempio, la Svezia è quella di togliersi le calzature prima di entrare in un luogo chiuso: da qui la diffusione delle comodissime infradito. Se si entra in un tempio è un segno di rispetto per la sacralità del luogo togliersi le scarpe; se si entra in una casa privata (e spesso anche in un negozio, dato che questi due ambienti in Laos frequentemente coincidono) è un segno di rispetto per la sacralità del focolaio familiare. In ogni caso è una sorta di questione igienica: come in Svezia si usa togliere le scarpe per evitare di portare in casa la neve ed il fango delle strade, ugualmente in Laos si usa togliere le scarpe per evitare di portare in casa, albergo o negozio la terra e la polvere delle strade.

“NON C’E’ FRETTA”

Le strade in Laos non hanno nome né numero. La gente comune conosce la strada e conosce i luoghi solo perché ci passa fisicamente, non perché sia in grado di leggere una mappa. Il laotiano medio non conosce la geografia, non è capace di posizionare il proprio Paese sul mappamondo e nemmeno di individuare la propria casa sulla cartina della propria città. Nella vita viaggia poco e nella maggior parte dei casi si sposta solo nell’area raggiungibile con il proprio motorino. D’altronde la sua vita è imperniata sul soddisfacimento di tre esigenze fondamentali (mangiare, bere, dormire), quindi in genere non ha grandi motivi per spostarsi. In Laos la vita è semplice: la terra è generosa e non si muore di fame, la BeerLao è più capillarmente diffusa dell’acqua e per dormire c’è sempre… il posto di lavoro. Il turista occidentale può trovarsi spiazzato di fronte ai ritmi di lavoro dei laotiani, ma questi riflettono semplicemente i ritmi della loro vita. Cioè lenti ai nostri occhi, molto lenti: in effetti, che fretta c’è ? Perché correre, affannarsi, stressarsi ? Per andare dove o per raggiungere cosa ? C’è un famosissimo detto nel Sud Est Asiatico, risalente al tempo degli sprezzanti coloni francesi, che ben sintetizza il rapporto dei laotiani con il lavoro: “i vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano crescere, i laotiani ascoltano il riso che cresce”.

Il segreto per apprezzare il Laos ed imparare ad amarlo, senza delusioni ed incomprensioni è semplice: liberarsi dai preconcetti e dalle infrastrutture mentali tipiche dell’Occidente, rallentare i propri ritmi, i propri movimenti ed i propri pensieri, abbandonare l’apnea della vita moderna e riprendere a respirare, a godere delle bellezze del posto, in breve entrare in sintonia con la lentezza di questo incredibile “stato d’animo”.

“Io i piedi ce li misi per la prima volta nella primavera del 1972. Su uno dei terrazzini dell’Hotel Constellation a Vientiane, c’era una ragazza hippie, bionda, che fumava una sigaretta di marijuana così forte che se ne sentiva l’odore per tutte le scale. Vedendomi arrivare, come volesse confidarmi una formula segreta per capire tutto, mi sussurrò: <<Ricordati, il Laos non è un posto; è uno stato d’animo >>”.

Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse”

A chi fosse interessato ad approfondire gli usi, i costumi e le tradizioni del Laos consiglio di leggere il libro “Laos” di Mauro Proni, italiano trapiantato in Oriente, fonte di ispirazione di questo articolo: chi è già stato nel Paese asiatico si riconoscerà in molti aneddoti citati da Mauro o magari riuscirà ad interpretare a posteriori alcune situazioni vissute in loco come surreali. Chi non vi è ancora stato, potrà disporre di un utile strumento per capirlo ed apprezzarlo appieno.

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Tired of London, tired of life – part III: Barbican Theatre & Boleyn Ground

Tra i più svariati motivi per visitare Londra non ci sono solo i suoi iconici monumenti, i suoi innumerevoli musei e le sue celebri attrazioni. Ci sono anche infiniti eventi che qui si svolgono quotidianamente, nelle più disparate location e in tutti i campi dell’intrattenimento: teatrale, musicale, sportivo…

Nuvole a Covent garden (vikingandre.com)

Nuvole a Covent Garden (vikingandre.com)

Le tournée di qualsiasi gruppo musicale, per esempio, includono sempre una tappa nella capitale inglese e gli artisti non mancano di apprezzarne la qualità del luogo e la competenza del pubblico, tanto che spesso le performance sono di qualità ed intensità maggiore rispetto ad altrove. Non deve stupire quindi che uno dei fattori di crescita turistica londinese sia rappresentato dalla partecipazione ad uno dei suoi eventi: gli appassionati di sport, teatro, arte, musica, cinema ecc. sanno che a Londra potranno godere del proprio intrattenimento preferito in location confortevoli, servite da una rete capillare di mezzi pubblici, in orari comodi e con l’assistenza di personale in genere efficiente e premuroso.

Hamlet (web)

Hamlet (web)

Il Barbican Theatre tra agosto ed ottobre 2015 ha ospitato l’Amleto di William Shakespeare, interpretato dall’attore inglese Benedict Cumberbatch. Tutte le repliche sono andate esaurite e ho capito il motivo: indipendentemente dalla dimestichezza con la lingua inglese, dalla passione per la tragedia shakespeariana e dalla curiosità per le qualità teatrali del celebre attore protagonista, lo spettacolo è davvero coinvolgente e scenografico. Il teatro è relativamente piccolo e raccolto, gli attori usano la propria voce senza microfoni e amplificazione, si muovono su un palco ampio e modulabile, in cui giochi di luce, musica e stupende coreografie riproducono i più disparati ambienti: dagli interni di un castello con una grande tavola imbandita per un realistico banchetto fino a lugubri ed astratte scenografie, specchio dell’animo travagliato di Hamlet. Ogni giorno 30 biglietti sono stati venduti a 10£ a chi non è riuscito ad accaparrarseli in prevendita ed ha avuto la pazienza (e la fortuna) di mettersi in coda alle 10.30 del mattino al botteghino di Silk Street.

Barbican Theatre (vikingandre.com)

Barbican Theatre (vikingandre.com)

Da una forma d’arte per intenditori ad un intrattenimento decisamente più popolare: gli stadi di calcio di Londra sono meta ogni giorno di tifosi ed appassionati che frequentano gli spalti non solo durante gli incontri, ma anche negli altri giorni della settimana grazie a visite guidate degli impianti e dei musei, a shopping nei negozi ufficiali delle squadre e spesso ad alberghi inglobati nel campo sportivo. Sono state consumate intere tastiere trattando il “modello inglese” di stadio privato e disquisendo sulla necessità che sia fruibile 7 giorni su 7, anche nel caso di società di piccole dimensioni.

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Farewell Boleyn Ground 1904-2016 (vikingandre.com)

Il West Ham United Football Club durante la stagione 2015/2016 ha un motivo in più per enfatizzare i suoi “stadium tours”: da agosto 2016 infatti la squadra abbandonerà lo storico Boleyn Ground situato ad Upton Park, lungo la famosa Green Street nell’East End londinese, per trasferirsi allo Stadio Olimpico di Stratford, poche miglia di distanza, nel nuovissimo impianto edificato in occasione delle Olimpiadi del 2012. “Farewell Boleyn 1904-2016” è quindi lo slogan ricorrente nel marketing degli Hammers per celebrare lo stadio che per più di un secolo è stato la casa delle imprese calcistiche di Bobby Moore, Trevor Brooking e Paolo Di Canio. Al costo di 20£ si può prendere parte ad un tour guidato che conduce nei santuari normalmente inviolabili di una società di football: la sala del presidente con vista sullo skyline londinese, i palchi dell’hospitality per i tifosi vip e gli sponsor, i corridoi dell’albergo interno con camere vista-campo, la tribuna principale dove si posizionano le telecamere della televisione. E poi si raggiungono i luoghi riservati agli addetti ai lavori nei giorni di partita: la sala stampa ed i cubicoli delle interviste, la sala relax dei calciatori, gli spogliatoi con le maglie da gioco appese agli armadietti, il tunnel che conduce al campo ed infine il grande prato rettangolare con le panchine delle due squadre.

The Academy of Football (vikingandre.com)

The Academy of Football (vikingandre.com)

La guida Michael è una fucina di aneddoti ed informazioni, un vero “hammer” con l’accento cockney dell’East London e con idee piuttosto chiare sul trasferimento nel nuovo stadio deciso dalla società per cui lavora.  Il West Ham infatti non ha un museo con una sala dei trofei da mostrare, non ha (ancora) uno stadio scintillante e moderno, non ha spogliatoi tirati a lucido con docce individuali e schermo elettronico per gli schemi di gioco, ma ogni piastrella e ogni filo d’erba del vecchio Boleyn Ground trasuda storia, tradizione, imprese eroiche, bel gioco. Il West Ham è nato nelle fabbriche lungo il Tamigi ed è sempre stato radicato nella comunità locale: è proprio questo suo fascino che ha fatto innamorare dei colori “Claret and Blue” anche molti tifosi d’Oltremanica, indipendentemente dagli scarsi successi sul campo. Spero che l’addio al Boleyn Ground non recida, usando le parole di Michael, il legame con la community e con la sua identità.

Upton Park, East London (vikingandre.com)

Upton Park, East London (vikingandre.com)

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Anime di ferro: il ritorno degli Iron Maiden

Si viene sempre colti da una certa agitazione alla vigilia dell’uscita di un nuovo album del proprio gruppo musicale preferito. Un misto di eccitazione e preoccupazione: sarà all’altezza dei precedenti oppure macchierà una carriera fino a quel momento brillante? Se poi l’album in uscita è quello degli Iron Maiden, quella nervosa aspettativa raggiunge livelli quasi patologici tra i fans della “vergine di ferro”.

Iron Maiden 2015 (web)

Iron Maiden 2015 (web)

Formatisi a East London ben 40 anni fa, i Maiden hanno attraversato tutte le epoche dell’heavy metal diventandone, dopo 15 dischi in studio, gli indiscussi capostipiti. L’età non proprio giovanissima dei 6 membri, la battaglia – poi vinta – contro un tumore del frontman Bruce, l’attesa di un lungo lustro dal precedente disco hanno alimentato i dubbi sullo stato di salute della “vergine di ferro” e sulla qualità del nuovo album.

E’ bastato un solo ascolto di The Book of Souls per spazzare in un attimo qualsiasi incertezza: gli Iron Maiden sono tornati e sono in forma strepitosa ! “Il libro delle anime” è un capolavoro assoluto di 92 minuti di heavy metal, in cui tradizione e modernità si fondono dando vita a sonorità sempre varie e mai noiose. 92 minuti di musica significano un doppio album di 11 canzoni, ciascuna delle quali di durata decisamente superiore alla media: ma sono talmente tanti i cambi di tempo, le variazioni melodiche e di ritmo, gli assoli che non esiste 1 minuto di questi  92 in cui ci si annoia o si perda interesse.

The Book of Souls (web)

The Book of Souls (web)

Tradizione e modernità: l’album è stato registrato nello stesso studio di Parigi dove nel 2000 è venuto alla luce l’ottimo Brave New World, ma con un approccio molto “live”, spontaneo, in cui quasi tutti i membri hanno contribuito alla stesura “sul posto” dei pezzi. E’ inutile provare a descrivere ogni singolo brano, bisogna solo ascoltarli e farsi catturare dalle melodie intrecciate delle 3 chitarre di Dave, Adrian e Janick, dalle galoppate col basso di Steve, dagli infiniti cambi di tempo del drummer Nicko e dall’inconfondibile voce “air raid siren” di Bruce.

Se qualche nostalgico “old school” decidesse di acquistare l’album in formato cd o vinile, anziché scaricarlo in digitale, potrebbe anche apprezzarne il bellissimo artwork, tutto incentrato su Eddie – la mascotte storica della band – catapultato in epoca Maya dai pennelli dell’artista britannico Mark Wilkinson.

Mayan Eddie (web)

Mayan Eddie (web)

Il primo singolo estratto dall’album, Speed of Light, è disponibile anche in formato video: è un geniale tributo al mondo dei videogiochi con Eddie che attraversa le ambientazioni della discografia maideniana dagli esordi ai nostri giorni, passando dai videogames a 8 bit fino alla realistica grafica contemporanea.

Videogame at the speed of light (web)

Videogame at the speed of light (web)

Una menzione speciale merita il pezzo che chiude The Book of Souls: Empire of the Clouds secondo me è la perfezione in campo musicale. 18 minuti di racconto in note del disastro aereo che nel 1930 ha visto coinvolto il dirigibile britannico R101 in volo dall’Inghilterra al Pakistan:  non una parola in più, va ascoltato e goduto dall’inizio alla fine, magari ad occhi chiusi, possibilmente con una bella coperta di lana addosso… i brividi e la pelle d’oca infatti non vi lasceranno molto presto.

Ed Force One ready for 2016 world tour (www.ironmaiden.com)

Ed Force One ready for 2016 world tour (www.ironmaiden.com)

See you on tour…. Up the Irons !

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Baltic sisters, positively surprising !

Aeroporto di Tallin. Attesa del volo di rientro in Italia. Ogni gate di imbarco è graficamente decorato in modo differente ed il nostro ha in bella evidenza lo slogan dell’ente turistico locale: “Estonia, positively surprising”. Questa frase – seppure un po’ legnosa da pronunciare – riassume bene l’esperienza di viaggio non solo in Estonia, ma in tutte e tre le Repubbliche Baltiche: una sorpresa positiva, ben oltre le aspettative. Questo angolo di Europa, faticosamente liberatosi solo negli anni Novanta dall’oppressione sovietica, non è infatti molto conosciuto a livello turistico, ma negli ultimi tempi ha saputo valorizzare le proprie bellezze e la propria identità culturale. Lituania, Lettonia ed Estonia svelano ciascuna i propri tratti nazionali salienti, ma senza rinnegare gli aspetti che le accomunano e che le hanno rese “le tre sorelle baltiche”.

Le sorelle baltiche

Le sorelle baltiche (vikingandre.com)

Una caratteristica comune delle capitali Vilnius, Riga e Tallin è la presenza di un centro storico ben definito, derivante soprattutto dalle fortificazioni edificate nel corso dei secoli e che tuttora ne delimitano il cuore urbano: le dimensioni non eccessive di questi nuclei storici consentono una delle attività che più amiamo in viaggio, il girovagare a piedi senza meta, il godersi luoghi e scorci semplicemente trovandoseli davanti.

Katariina käik, Tallin (vikingandre.com)

Katariina käik, Tallin (vikingandre.com)

#VILNIUS, #LITUANIA

L’aeroporto di Vilnius è piccolo e semi-deserto, sembra una stazione dei treni: la più meridionale delle Repubbliche Baltiche, la Lituania, ci accoglie in modo quasi familiare in una tiepida mattinata di agosto; il pulmino numero 88 parte dalla banchina situata nel piazzale di Oro Uostas e, raccogliendo massaie e studenti ad ogni fermata, percorre le strade di periferia fino al centro città, seguendo il perimetro del nucleo urbano: il biglietto costa 1€ per gli adulti e 0,5€ per i bambini ed in circa mezz’ora di tragitto ci deposita presso l’iconica cattedrale cittadina. L’alternativa è prendere il treno che dalla stazione dell’aeroporto conduce alla stazione ferroviaria in poco meno di 10 minuti di percorso: la frequenza è di circa un convoglio all’ora ed il biglietto costa 0,72€. La Lituania è entrata nell’area euro il 1° gennaio 2015 ed il costo della vita beneficia ancora dei prezzi indicati in euro e nel vecchio litas.

Vilnius dalla collina Gediminas (vikingandre.com)

Vilnius dalla collina Gediminas (vikingandre.com)

Una volta inquadrati su una mappa i confini del centro, l’esplorazione a piedi di Vilnius si svolge con serena casualità da un luogo all’altro: è infatti impossibile perdersi qualche attrazione di questa gradevolissima ed affascinante città, ricca di angoli suggestivi, stradine lastricate di ciottoli, giardini e tante, tantissime chiese. Partendo dalla porta meridionale Dawn Gate che conserva un’effigie dorata della Madonna, risaliamo la via principale Pilies Gatve zigzagando tra edifici religiosi cattolici e ortodossi, palazzi in stile barocco, laboratori artigianali, una bella università ed il quartiere ebraico oggi stracolmo di locali, ristoranti all’aperto e negozi di prodotti in ambra.

Le stradine di Vilnius by night (vikingandre.com)

Le stradine di Vilnius by night (vikingandre.com)

L’immagine più simbolica della città è forse la grande piazza della Cattedrale, con la bianca chiesa in stile classico e la torre del campanile alta quasi 60 metri, ma è assolutamente da non perdere la vista panoramica della capitale lituana al tramonto dall’alto della collina di Gediminas. Per una sosta rilassante, i giardini Bernardinu Sodas sono l’ideale, grazie a prati ben tenuti, fontane, laghetti, giochi. Dall’uscita meridionale del parco si può poi procedere lungo il fiume Vilnia fino alla chiesa di Sant’Anna in mattoni rossi e subito dopo esplorare la cosiddetta Repubblica di Užupis, un quartiere autoproclamatosi stato indipendente e animato da artisti, artigiani ed hippie sognatori; qui si trovano vari caffè, ristoranti e una pizzeria. Infine, agli appassionati di Storia (soprattutto quella più recente) consigliamo la visita del Museo delle Vittime del Genocidio (http://www.genocid.lt/muziejus/en/) in Gediminino Prospektas, dove testimonianze fotografiche e reperti ripercorrono anche in modo crudo gli anni drammatici dell’occupazione nazista e sovietica in Lituania.

Campanile della Cattedrale di Vilnius (vikingandre.com)

Campanile della Cattedrale di Vilnius (vikingandre.com)

La cucina baltica è piuttosto essenziale ed energetica, sempre innaffiata da un’eccellente birra locale. Uno degli snack più frequenti è un piatto di pezzetti di pane pesantemente fritti, strofinati con l’aglio e serviti sommersi da una montagna di formaggio grattato e con una ciotolina di panna acida in cui intingerli… nella Repubblica di Užupis si possono gustare piatti come questo presso il ristorante Sole Respublika (http://www.solerespublika.lt/) con vista sulla statua dell’angelo appunto di Užupis oppure sorseggiare un caffè con vista fiume al bar Užupio kavinė (http://uzupiokavine.lt/).

Birretta ai piedi dell’angelo di Užupis (vikingandre.com)

Birretta ai piedi dell’angelo di Užupis (vikingandre.com)

L’offerta alberghiera di Vilnius è ampia e variegata. In una caratteristica stradina acciottolata, ubicato in pieno centro storico tra la Cattedrale e la chiesa di Sant’Anna, sorge il Shakespeare Boutique Hotel (http://www.shakespeare.lt/); travi in legno a vista, camere tutte diverse con ciascuna il nome di uno scrittore classico, sala pranzo con divani e poltrone ricoperti da grossi cuscini, servizio impeccabile e cortese, deliziosa cucina à la carte sempre aperta: nel contesto dei prezzi lituani non è economicissimo, ma posizione e atmosfera valgono sicuramente la spesa.

Shakespeare Boutique Hotel Vilnius: (vikingandre.com)

Shakespeare Boutique Hotel Vilnius: (vikingandre.com)

#RIGA, #LETTONIA

Per muoversi all’interno delle Repubbliche Baltiche, il mezzo più comodo è il bus dato che le linee ferroviarie non sono capillari ed i tempi di percorrenza sono piuttosto lunghi su mezzi non molto confortevoli. La stazione dei bus di Vilnius si raggiunge in circa 10 minuti a piedi dalla porta dell’Aurora e la compagnia Lux Express (http://www.luxexpress.eu/en) collega comodamente in circa 4 ore la capitale lituana a quella lettone. I mezzi sono moderni e confortevoli, dispongono di toilette e ogni sedile è dotato di un piccolo schermo come quello sugli aerei con film, giochi ed intrattenimenti vari. In fondo ad alcuni pullman della Lux Express esiste una “lounge” che consente per pochi euro in più di viaggiare in un sedile singolo con spazio extra per le gambe, bottiglietta d’acqua e snack inclusi. La stazione dei bus di Riga è ubicata a ridosso del centro storico, a 10/15 minuti a piedi dalla piazza del Comune.

Bus -anche se sembra un aereo- tra Vilnius e Riga (vikingandre.com)

Bus -anche se sembra un aereo- tra Vilnius e Riga (vikingandre.com)

Tra le 3 capitali baltiche, Riga è quella che presenta ancora vaghe tracce dell’occupazione sovietica, soprattutto nell’aspetto grigio e squadrato di alcuni edifici della sua periferia, nel tetro cemento scuro del centralissimo Museo dell’Occupazione e nell’aria un filo trasandata della stazione e del vicino mercato Rīgas Centrāltirgus. Ma si tratta solo di tracce, perché per il resto l’atmosfera che vi si respira e l’estetica degli edifici centrali sono lontanissimi dallo squallore urbano di epoca sovietica: il cuore storico di Riga, delimitato dal fiume Daugava e dal suo canale Pilsētas kanāls immerso nel verde del parco cittadino, è in grandissima parte pedonalizzato e si presenta come un vivace susseguirsi di piazze acciottolate, tortuose viuzze, chiese cattoliche, ortodosse, luterane, palazzi in stile art nouveau e vecchie case dei mercanti di impronta anseatica.

Nei pressi della chiesa di San Pietro a Riga (vikingandre.com)

Nei pressi della chiesa di San Pietro a Riga (vikingandre.com)

Qui è veramente imperativo riporre mappe e smartphone e concedersi di perdersi tra gli innumerevoli scorci e angoli pittoreschi che contraddistinguono la capitale lettone. Ci imbattiamo facilmente nella piazza Rātslaukums con l’iconica Casa delle Teste Nere ed il Municipio, nella imponente chiesa di San Pietro, nella piazza del Duomo, nel Castello di Riga e nella vivace piazza Livu con la famosa statua del gatto nero divenuta simbolo della città. Dopo una foto agli affascinanti edifici detti “Tre Fratelli” e alla Torre delle Polveri, ci concediamo un po’ relax nel curatissimo parco cittadino dove si può noleggiare una barca a remi in legno o sorseggiare una birra in uno dei chioschetti nascosti tra gli alberi mentre le bambine si rincorrono nei prati. Poco distante troviamo Alberta Iela, la via dei palazzi in stile art nouveau, l’Opera House con la sua piazza stracolma di fiori colorati ed il monumento alla libertà dove nella luce del lungo tramonto estivo brillano le tre stelle che simbolizzano la libertà delle sorelle baltiche. La vicinanza di Riga al mare comporta in certi momenti l’ingombrante presenza di truppe di crocieristi in marcia serrata tra le attrazioni locali prima che il proprio condominio galleggiante salpi le àncore; un luogo dove solitamente questi turisti con l’adesivo della nave appiccicato alla maglietta non arrivano è il mercato centrale Rīgas Centrāltirgus: qui, nei grandi hangar un tempo utilizzati per costruire dirigibili, si incontra la gente del posto intenta ad acquistare fragole, mirtilli, cetrioli, anguille affumicate e barattoli di caviale. Molte vecchiette con il foulard allestiscono piccoli banchi di fiori o di prodotti del proprio orto di casa, conferendo al luogo un’aria rustica e verace.

Fontana nel canale di Riga (vikingandre.com)

Fontana nel canale di Riga (vikingandre.com)

A proposito di cibo, nutrirsi a Riga è semplicissimo: il centro brulica di locali, bar, pub, ristoranti che nella stagione estiva dilagano in ogni piazzetta e via all’aperto. C’è l’imbarazzo della scelta, anche perché nonostante la massiccia presenza turistica tutti i locali che proviamo sembra preparino i piatti al momento e la qualità è sempre eccellente.

Selezione di birre lettoni gustate all'aperto in una sera d'estate a Riga.... mmmmh ! (vikingandre.com)

Selezione di birre lettoni gustate all’aperto in una sera d’estate a Riga…. mmmmh ! (vikingandre.com)

Imbattibile è il pentolone di 1 kg di cozze alla crema di zafferano che ci concediamo da Egle (http://spogulegle.lv/), nella via Kalku alle spalle del Duomo.

Cozze del Baltico (vikingandre.com)

Cozze del Baltico (vikingandre.com)

L’offerta alberghiera è anche qui ampia e va da famose catene internazionali come i Radisson ad hotel indipendenti più semplici ed economici. Optiamo per il St. Peter’s Boutique Hotel (http://www.stpetershotel.lv/) che ci consente di stare in un’unica camera in 2 adulti e 3 bambine: gli ambienti in legno e roccia a vista stuccata, la sala colazione (un po’ piccola) nel sotterraneo con volte in mattoni ed il caminetto rustico nei pressi della reception conferiscono a questo albergo il carattere ed il fascino che ci piacciono. La posizione a pochi passi dalla chiesa di San Pietro è comodissima per esplorare la città, la nostra camera all’ultimo piano minimizza il rumore di alcuni locali presenti nella stessa strada.

St. Peter’s Boutique Hotel di Riga (vikingandre.com)

St. Peter’s Boutique Hotel di Riga (vikingandre.com)

#TALLIN, #ESTONIA

In 4 ore abbondanti il bus della Lux Express ci porta a Tallin, la capitale dell’ Estonia: l’autostazione si trova ad un paio di km dall’albergo, in zona abbastanza periferica, perciò il taxi è la soluzione più comoda (ci costa 4,5€ sebbene non sia chiaro se stringerci in 6 su un’auto station wagon fosse concesso oppure fosse uno strappo alla regola). Il traffico intorno al centro cittadino è scarso, percorriamo ampi viali a 2/3 corsie e scorgiamo alcuni grandi centri commerciali più tipici del moderno Nord Europa che della vecchia cortina di ferro.

Tallin dalla collina Toompea (vikingandre.com)

Tallin dalla collina Toompea (vikingandre.com)

La fetta superiore del sandwich baltico ha infatti un sapore decisamente scandinavo e Tallin, per pulizia, efficienza, tecnologia e fiuto commerciale assomiglia ad una capitale nordica. In più la lingua che vi si parla, di ceppo ugro-finnico, richiama nei suoni e nella scrittura il finlandese. Il cuore della città è delimitato da mura ben conservate e questo aspetto architettonico ne favorisce l’impronta “medievale”, sapientemente valorizzata in chiave turistica; ballatoi in legno, torri a punta con il tetto in tegole rosse, castello, antichi palazzi di origine mercantile con trave e fune sulla facciata, chiese imponenti dai più disparati stili architettonici ed una magnifica piazza centrale dominata dal palazzo del municipio: tutto contribuisce a creare un’atmosfera da vecchio comune anseatico. Molti alberghi e ristoranti ripropongono gli ambienti soffusi ed un po’ rustici (caminetto, candele e mattoni a vista) del passato, addirittura riproponendo menu di pietanze e bevande elaborati seguendo antiche ricette tradizionali, talvolta rasentando il kitsch con camerieri in costume e danze semi-improvvisate. L’infinità di negozietti di souvenir denota una massiccia presenza turistica, alimentata anche qui da sciami di crocieristi fuoriusciti da giganteschi alveari galleggianti ancorati nel vicino porto. Per fortuna il fascino di Tallin non ne esce scalfito, anzi: durante il giorno vi si respira una vivace aria vacanziera che scivola nella romantica tranquillità della sera, quando le stradine acciottolate si svuotano, o nella nebbiolina del mattino presto, quando cominciano ad animarsi.

Vecchie case dei mercanti a Tallin (vikingandre.com)

Vecchie case dei mercanti a Tallin (vikingandre.com)

La visita del nucleo storico di Tallin si effettua tutta a piedi ed orientarsi è facile: basta zigzagare a caso nelle sue stradine e cambiare direzione quando si incontrano i bastioni. Partiamo da sud, dalla Piazza della Libertà: Vabaduse Väljak, con il suo monumento in piastrelle di vetro dedicato ai caduti nella guerra di indipendenza estone e con l’opposta Chiesa di San Giovanni, è il ritrovo degli appassionati di skateboard che si sfidano in acrobazie tra gradini e muretti. Risaliamo la collina Toompea, il nucleo più antico del cuore storico della città ed incontriamo un bel museo, adatto anche ai più piccoli: Kiek in de Kök (http://linnamuuseum.ee/kok/en/) consiste in una torre delle antiche fortificazioni cittadine trasformata in virtuale viaggio nella storia di Tallin con testimonianze audiovideo, reperti e dispositivi multimediali. Dalla cima della torre si gode di una bella vista sui tetti dei palazzi sottostanti e da qui deriva il nome Kiek in de Kök, cioè “sbirciata nelle cucine”… delle altre case ! La seconda parte del museo conduce nei tunnel sotterranei scavati nei bastioni della città e anche qui il tema conduttore è la storia di Tallin attraverso l’uso, nel corso dei secoli, di questi passaggi segreti: da rifugio durante i bombardamenti bellici a ritrovo dei giovani punk inneggianti alla perestrojka. Da non perdere ! Proseguiamo con la visita alla Cattedrale ortodossa di Aleksandr Nevskij e dopo qualche scatto fotografico dalla vicina terrazza panoramica sul profilo della città, scendiamo dalla collina per una sosta relax nei giardini adiacenti alla più lunga e pittoresca sequenza di torri e mura della città. La passeggiata ci conduce al cuore pulsante di Tallin, la piazza del Municipio, un luogo davvero suggestivo soprattutto di sera quando è tutta illuminata: ampia, vivace, strapiena di umanità, animata da artisti di strada, ricca di locali e ristoranti di ogni genere.

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Il Municipio di Tallin, nella piazza principale della città (vikingandre.com)

Quando lo stomaco comincia a brontolare, non passano molti secondi prima che a Tallin ci si imbatta in qualche trattoria, ristorante o birreria: ce n’è ovunque, per tutti i gusti e tutte le tasche. In un pittoresco angolino stretto tra le fortificazioni e la chiesa di S. Olaf, troviamo il ristorante U Natashi (link) che serve su tavolini all’aperto gustosi piatti della cucina russa: tra questi, ottimi gnocchi degli Urali fatti a mano. Immancabile è la visita ad uno dei locali che propongono piatti tratti da ricette medievali: Olde Hansa (http://www.oldehansa.ee/en/) è il più grande e famoso, ma meritano anche Peppersack (http://www.peppersack.ee/) ed il pub Draakon (http://www.kolmasdraakon.ee/), quest’ultimo situato proprio sotto i portici del Municipio. Per un ambiente più raccolto, tutto candele e travi in legno a vista, consigliamo il ristorante Munga Kelder (http://www.mungakelder.ee/), la cantina dei fraticelli, nei pressi della suggestiva viuzza Katariina käik.

Il ristorante Munga Kelder di Tallin (vikingandre.com)

Il ristorante Munga Kelder di Tallin (vikingandre.com)

Per dormire 3 notti a Tallin in 5 persone senza liquefare la carta di credito, conviene cercare una sistemazione alberghiera fuori dal nucleo storico: l’Hotel Santa Barbara (http://www.stbarbara.ee/) è una soluzione semplice, pulita, economica, con camere a 4/5 letti e soprattutto una posizione comodissima a ridosso del centro storico. La colazione a buffet è servita nella sala sotterranea, con camino e volte in mattoni, del ristorante Baieri Kelder (http://www.baierikelder.ee/), una birreria in stile bavarese il cui stinco di maiale al forno consigliamo vivamente: si scioglie letteralmente in bocca.

Gli abitanti di Helsinki amano prendere il sole seduti sui gradini del loro duomo (vikingandre.com)

Gli abitanti di Helsinki amano prendere il sole seduti sui gradini del loro duomo (vikingandre.com)

Frequenti navi giornaliere (Tallink Silja Line, Viking Line, Eckerö Line) collegano il porto di Tallin a quello di Helsinki: la maggior parte attraversa il golfo di Finlandia in un paio d’ore abbondanti, consentendo un’escursione giornaliera nella capitale finlandese.

Il mercato di Helsinki: questi ce li possiamo ancora permettere.... (vikingandre.com)

Il mercato di Helsinki: questi ce li possiamo ancora permettere…. (vikingandre.com)

Suggeriamo di portarsi i viveri dall’Estonia, i prezzi finlandesi – seppur espressi in euro come in tutti e 3 i vicini baltici – sono a dir poco inarrivabili. Una pinta di birra alla spina arriva a costare 8/9 euro ! Sopravviviamo con un po’ di street food lappone consumato al mercato e un cestino di mustikka (mirtilli) e lamponi artici.

Tramonto sul Baltico, tra Helsinki e Tallin (vikingandre.com)

Tramonto sul Baltico, tra Helsinki e Tallin (vikingandre.com)

Di nuovo Tallin. E’ arrivato il taxi per l’aeroporto: stavolta è un pulmino, ci stiamo ben comodi in 5 e i nostri zaini rotolano nell’ampio bagagliaio. In 10 minuti giungiamo al terminal, le strade qui sono sempre libere e semi-deserto è pure lo scalo più importante dell’Estonia. Sullo monitor touch-screen scorgiamo ben 3 voli in partenza stasera. Dopo i controlli ai raggi X e ai metal detector c’è un dispositivo con tre pulsanti a forma di faccine, una sorridente, una indifferente e una triste: premendo si dà un giudizio dell’esperienza appena trascorsa ai controlli aeroportuali. Sorridiamo insieme alla faccina sorridente e premendola diamo tutti un giudizio positivo, come se fosse la valutazione dell’intero viaggio….

….positively surprising !

Bye bye Baltic sisters ! (vikingandre.com)

Bye bye Baltic sisters ! (vikingandre.com)

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